Che Joseph Ratzinger non sarebbe stato un Papa conciliante come il suo predecessore era cosa prevedibile. Teologo in Germania, prima, poi a
Roma Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (un po’ la Stasi della spiritualità, se mi si concede il paragone), infine la nomina a successore di Pietro sulla terra: non era
lecito insomma aspettarsi un rinnovamento in chiave “progressista” dell’istituzione pontificia. Ieri però Ratzinger ha superato ogni più ponderata previsione nella opposta direzione, quella di
una renovata “intransigenza” della dottrina cattolica, sancendo de facto l’inizio di una nuova era nei rapporti tra Chiesa e Stato Italiano.
Nella sua omelia per la santa messa del Crisma in Vaticano, Ratzinger ha invitato i cristiani ad essere <<forti per la lotta>> ed a <<soffrire per
il bene, per Dio>>. Ma in cosa consiste questa “lotta”? I cristiani, dice Ratzinger, <<come buoni cittadini, rispettano il diritto e fanno ciò che è giusto e
buono>> e (non ma, e) <<rifiutano di fare ciò che negli ordinamenti giuridici in vigore non è diritto, ma ingiustizia>>. Sarebbe già abbastanza, tanto è chiaro il
messaggio. Ma Ratzinger non si ferma, anzi, affonda ancora: si richiama i martiri e afferma <<anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace.
Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che viene elevata a diritto – per esempio, quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati. Proprio così
serviamo la pace e proprio così ci troviamo a seguire le orme di Gesù Cristo [...]>>.
Chi è a parlare? Il teologo Ratzinger, Papa Ratzinger o il capo di stato? Invero, la trinità ratzingeriana non arriva mai alla consapevolezza di sé stessa e dunque non è
scindibile, perlomeno non nella sua manifestazione più ecumenica, quella del pastore che parla al suo gregge. Si nota comunque una cifra costante non solo dello stile ma anche dell’epistemologia
ratzingeriana: da un lato, la promiscuità semantica, data dall’occorrenza del termine "diritto" in almeno due significati diversi ma mai esplicitati; dall’altro, la promiscuità sintattica, con
l’uso, ripetuto due volte, della coordinazione non avversativa tra il rispettare il diritto e il non accettarlo, come se le due azioni fossero due facce della stessa medaglia. Ciò che colpisce
davvero è però la virulenza, senza eguali finora, nell’attacco alle istituzioni della Repubblica italiana.
Come infatti farebbe un condottiero nell’imminenza della battaglia, Ratzinger serra i ranghi ed esorta esplicitamente i cristiani alla <<lotta>> per la
<<giustizia>>, addirittura nell’intento di seguire <<le orme di Gesù>>. Il <<diritto>>, qui, è quello di Dio, non quello degli
uomini. Parla infatti, con una finezza machiavellica, di <<ordinamenti giuridici in vigore>> e non di “Stato”, delegittimando così il secondo, come se le due entità
fossero separabili; invero, lo sono in una visione pre-moderna del diritto e della società stessa, visione che d’altronde Ratzinger propone, non da oggi, come unica possibilità di salvezza per la
corrotta società post-industriale. La battaglia è, ancora una volta, quella sull’aborto, l’omicidio di stato; una battaglia che ha già dimostrato di trovare consensi tra i
“politici” italiani ma non nella società civile, che ha prima votato e poi difeso la legge che ha lo ha depenalizzato. Perché dunque questa nuova offensiva?
Paradossalmente perché, forte mai come in questo periodo della sponda offerta (strumentalmente) da ampi settori del panorama politico italiano, Ratzinger si trova a
dover affrontare uno dei momenti di più grave debolezza che la chiesa moderna ricordi, stretta tra l’emorragica perdita di fedeli, gli scandali legati a vicende finanziarie e penali e
l’incessante avanzare sul suolo europeo di altre confessioni. In questo senso, l’unica difesa che il teologo tedesco sembra conoscere, è l’attacco. Dopo la strumentalizzazione della morte
di Eluana Englaro (e la vergognosa campagna diffamatoria contro quell’eroe civile che risponde al nome di Beppino Englaro), dopo la martellante stagione di
propaganda contro la pillola RU486 che sembra aver dato i suoi frutti nella rinnovata vocazione cristiana di molti leader leghisti (vocazione che magicamente
sparisce quando si pronuncia la parola “immigrati”), Ratzinger sembra dunque alzare la posta in gioco, ponendosi come obiettivo la stessa ridefinizione dei rapporti tra stato e chiesa. La
domanda è: si rende conto delle conseguenze? Ci troviamo di fronte ad un lucido calcolatore o piuttosto è la mossa avventata di chi è messo alle strette? L’aborto, in questo senso, è solo un
pretesto, seppur quello col maggior potenziale "distruttivo" tra quelli a disposizione. Il messaggio però è universale ed assoluto, e senza possibilità di fraintendimenti; è quello di
chiamare i cristiani ad una non specificata “lotta” contro le leggi ingiuste, o più precisamente, contro le leggi ingiuste secondo la morale cattolica. Così fanno i <<buoni
cittadini>>. Così fecero, prima di loro, i martiri cristiani, che riportarono il <<giusto>> nel <<diritto>>. Il ‘diritto ingiusto’,
possibilità stessa dell’esistenza della democrazia costituzionale, è categoria sconosciuta al lessico ratzingeriano. Ed è proprio questo richiamo al giusto e all’ingiusto che costituisce il
passo più pericoloso del messaggio: giustizia e ingiustizia come fossero concetti universalizzabili, cioè applicabili allo stesso modo per tutto e tutti, in quanto tali, e sui cui fondare la
legittimità ultima dell’ordinamento giuridico. Su questo tornerò a breve.
Non posso però prima non spendere qualche parola su questo nuovo, violento attacco alla legge 194. Per Raztinger, e non da oggi, l’aborto ai sensi di legge non è altro che l’omicidio
legalizzato di <<bambini innocenti>>. Dico da subito che è inutile provare ad affrontare la questione dal punto di vista medico-scientifico, perchè tali
argomenti non vengono riconosciuti come rilevanti. Embrione equivale ad essere umano, a persona, ed è inutile allo stesso modo provare a ricordare che anche per uno dei padri della dottrina
cattolica, San Tommaso d’Aquino, le cose non stanno proprio così. Come inutile è ricordare la statistica degli aborti in Italia quando questo era illegale e
metterla a confronto con quella post legge 194, per scoprire che il numero degli aborti è sensibilmente calato (salvando dunque,
secondo la stessa morale ratzingeriana, la vita di tanti “innocenti bambini”): perché questo non fa minimamente breccia nelle posizioni di chi considera l’utilitarismo filosofico al pari di un
esercizio di retorica, ed il ruolo della madre al pari di quello di un altoforno industriale. A (argomento) morale si deve rispondere con (argomento) morale, e dunque mi limito qui a ricordare,
richiamando il pensiero di Luigi Ferrajoli, che la penalizzazione dell’aborto contraddice due principi fondamentali della civilità moderna: la massima
dell’etica kantiana secondo cui nessuno uomo può essere usato come mezzo per fini non suoi; e il principio del liberalismo moderno, come formulato da John Stuart Mill, per cui
<<sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano>>. Entrambi questi principi implicano l’idea che la madre, e solo lei, sappia davvero se quello
che porta in grembo è un bambino oppure no: in altre parole, che lei e solo lei possa concepire moralmente quell’embrione, quel potenziale di vita, come figlio, e dunque come essere umano, oppure
no.
Ciò che distingue persone come me da Ratzinger e da chi la pensa come lui, è esattamente il fatto che io non pretendo che questa mia visione morale della madre e dell’embrione venga
condivisa da tutti. Essa è, in quanto concezione morale, nè più vera nè più falsa di quella cattolica che identifica comunque nell’embrione una persona indipendemente dalla volontà della
madre di metterlo al mondo. Le due concezioni sono, dunque, sul piano morale, incompatibili. Non esiste evidentemente possibilità di compromesso, ma solo di reciproca tolleranza. E la
tolleranza, in questo senso, consiste nel riconoscere legittimità ad entrambe, permettendo che ciascuna possa essere liberamente perseguita all’interno di un sistema di regole (le regole
degli uomini, non quelle di Dio) che rispetti e tuteli la diversa morale di ognuno di noi.
In questo senso, sempre Ferrajoli ricorda che il principio di separazione tra diritto e morale costituisce il mutamento stesso di paradigma dal diritto pre-moderno allo stato
costituzionale di diritto. Esso non sta a significare che il diritto non abbia un qualche contenuto morale (tesi falsa, basti pensare ai diritti fondamentali della persona); bensì, da un
lato, che la moralità di un’azione non sia condizione sufficiente per implicarne la giuridicità, e cioè, la protezione da parte del diritto; dall’altro, che non basta la mera immoralità a
giustificare la proibizione di un comportamento (dovendo questo violare qualche altro principio, ad esempio quello di offensività). Invero, quello che Ratzinger sembra non capire
è che è proprio il principio di separazione tra diritto e morale che preserva e difende tutte le morali, in quanto tali; che siano incardinate in una religione ufficiale o che si
manifestino spontaneamente nelle dinamiche sociali. A questa considerazione un cattolico replicherebbe che si tratta di un "relativismo" inaccettabile, perché accettare la morale cristiana
esclude che ve ne possano essere altre altrettanto “vere”. Quest’ultima affermazione, invero, prova più di quanto vorrebbe.
Se si elimina il principio della separazione tra diritto e morale, infatti, cade anche il principio di laicità, su cui tanto e bene ha scritto Paolo Flores D’Arcais: cosa
impedirebbe allora ad altre religioni di reclamare legittimamente che tutte le proprie norme morali vengano incardinate nel e per tramite del diritto dello stato? Invero
Ratzinger esplicitamente indica questo come obiettivo, quando ricorda di come il sacrificio dei martiri abbia contribuito ad instaurare la “giustizia” nel “diritto”. Ma chi decide cosa è
‘giusto’ se lo stato cessa di essere tale? L’anticognitivismo etico, si può dire, non è a salvaguardia della laicità, ma della morale, dato che ne preserva la stessa possibilità di esistenza.
Non è azzardato perciò richiamare, a questo proposito, la Shari’a, la legge coranica in vigore presso molti stati a maggioranza islamica: essa non è altro infatti che il discorso
ratzingeriano portato alle sue logiche benché estreme conseguenze, cioè la totale sovrapposizione tra diritto e morale, o meglio, tra diritto ed una determinata idea di morale. Cosa ne è
dell’individuo e della sua libertà in uno stato confessionale?
Ratzinger, d’altronde, gioca implicitamente sulla sua ambivalenza capo di stato – guida spirituale (quantomeno in Iran sono due cariche diverse...), revocando in dubbio
quell’immagine di equilibrio istituzionale che Giovanni Paolo II aveva così faticosamente costruito negli anni del suo pontificato. Si potrebbero però considerare le parole
di Ratzinger nella loro possibile rilevanza per l’ordinamento giuridico italiano: non ricadrebbero forse nella fattispecie prevista dall’art. 415 del codice penale, che prevede
che "chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico [...] è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni’? Questa ovviamente è pura
provocazione, e non perchè l’ipotesi sia peregrina: ma perchè, proprio in quanto capo di stato, Ratzinger gode dell’immunità assoluta dalle leggi italiane, e quindi non sarebbe
perseguibile. Ma ciò non è tanto più grave? Voglio dire, il fatto che sia un capo di stato ad invitare a non rispettare le leggi di un altro stato sovrano, non lo rende ancora più
inaccettabile? Come reagiremmo se il presidente Obama esortasse tutti gli americani presenti nel nostro paese a non rispettare la legge italiana? “Ma no”, si risponde, “ma quale Capo di
Stato, lui è il Papa, e parla come guida spirituale alle anime dei suoi fedeli...”: e allora però non mi sembra che le guide spirituali godano dell’immunità nel nostro paese; basti
pensare ai diversi Imam musulmani che sono stati espulsi dal territorio italiano perchè accusati di incitare all’odio verso il nostro paese e le sue leggi. Quid
iuris?
Si potrebbe, infine, obiettare: “però non si sentono queste "levate di scudi" quanto alcuni preti aiutano gli immigrati clandestini violando le leggi sull’immigrazione...”. Qui il
punto in realtà è del tutto diverso: si parla in questo caso infatti di decisioni di singoli cittadini, nonché sacerdoti, che in coscienza loro decidono di violare la legge dello stato
che ritengono ingiusta, pronti ad accettarne le conseguenze. Non vi è comando eteronomo: è una risoluzione interiore, personale, che non si può generalizzare perché il senso del morale
che c’è in ognuno di noi è unico, e solo in quanto tale può solo condurci alla sincera decisione di infrangere la legge e di esporci alle conseguenze del caso. Si chiama principio di
autodeterminazione dell’essere umano, ed implica che non esistono, perchè non possono esistere, morali assolute o assolutizzabili. La filosofia ce lo dovrebbe aver insegnato, e la storia,
confermato.
Proprio un altro padre della dottrina cattolica,Sant’Agostino, ha avuto il grande merito di creare la filosofia della storia, mentre cercava di incardinare il
cristianesimo nel mondo e nelle sue vicende. Parlava di due città, quella di Dio e quella degli uomini, e della loro coesistenza. Mi sento di dire che, in questo stato del mondo, esse
funzionano e convivono fin tanto che si rispettano.
Non è dato sapere cosa succederebbe se una provasse ad andare alla conquista dell’altra. Giovanni Paolo II l’aveva capito.
Non penso, in verità, che Joseph Ratzinger si sia nemmeno posto il problema.
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