Si avvicina la data fatidica del 21 dicembre 2012, prevista dai Maya per la fine del mondo.
Lo studioso Telmo Pievani, nel suo nuovo libro, ricostruisce come nascono le leggende millenaristiche.
Che leggono in modo del tutto alterato i fenomeni naturali
Il count down per la fine del mondo è cominciato. In un accapigliarsi fra apocalittici e riottosi, che aspettano ugualmente il 21 dicembre 2012 come fosse l’ultimo giorno della storia come
vuole una sedicente profezia maya. Un gioco che stuzzica la curiosità divertita dei giornali (Gramellini e Taddia su La Stampa, gli dedicano una pagina al dì) ma anche
gli appetiti delle case editrici più commerciali. Certo, nell’anno domini 2012 c’è di che stupirsi che ciarpame profetico trovi abbondanti lettori. Ma proprio per questo è interessante tentare di
leggere la lunga durata di un fenomeno millenaristico che, come una insana coazione a ripetere, attraversa i secoli portando allo scoperto meccanismi di pensiero delirante stranamente condivisi
da ampi gruppi di persone in determinate epoche e congiunture. Un fenomeno, a dire il vero, assai complesso quello delle cosiddette “catastrofi culturali” a cui Ernesto De Martino dedicò il libro
La fine del mondo. Il filosofo della scienza Telmo Pievani ne tenta una lettura concentrandosi, invece, sul modo in cui sono state percepite nella storia le catastrofi naturali. Con piglio
ironico e brillante, che dissimula l’immane impegno di una cavalcata che va dall’età dell’oro di Esiodo, all’Antico Testamento fino agli heideggeriani e neo catastrofisti di oggi, Pievani lo
affronta in chiave evoluzionistica ne La fine del mondo Guida per apocalittici perplessi (Il Mulino). Un libro spassoso e divertito, da cui Federico Taddia e la
Banda Osiris hanno tratto uno spettacolo, ma che nasce con un preciso intento di Aufklärung illuminista. E proprio per far chiarezza, incontrando Pievani, neo docente di filosofia della biologia
all’università di Padova, gli chiediamo cosa mai possa unire la pagana profezia maya e l’idea dell’apocalisse cristiana, due concezioni a prima vista lontanissime. «In realtà – spiega Pievani –
ci sono tratti comuni e differenze. La differenza fondamentale è nel modo di concepire il tempo, quella giudaico-cristiana è di tipo lineare, con un inizio, un telos, un compimento. La fine della
storia per i cristiani è un grande redde rationem, in cui si fanno i conti dei giusti e degli empi. La concezione del tempo dei Maya, invece, è più raffinata, è una sorta di commistione fra un
tempo lineare e un tempo ciclico». E al di là delle assurde e antiscientifiche profezie di cui ora si parla «i Maya furono capaci di prevedere realmente una notevole quantità di fenomeni
astronomici». Quanto a ciò che le accomuna? «A mio avviso è interessante che due culture che hanno due concezioni così diverse del tempo, poi in realtà, formulino entrambe
l’idea che ci possano essere cesure del tempo», nota Pievani. «Come se avessero un bisogno psicologico profondo della fine del mondo per dare senso alla storia». Per dare un senso a fenomeni
naturali improvvisi e violenti come il terremoto di Lisbona su cui si interrogavano laicamente gli illuministi o come lo tsunami in Giappone in cui l’ex direttore del Cnr Roberto de Mattei,
sorprendentemente, ha visto una punizione divina contro gli asiatici miscredenti. «Sul piano scientifico la prima evidenza da rilevare – mette in chiaro Pievani – è che la fine del mondo c’è già
stata tante volte. Le grandi catastrofi nel passato hanno stravolto la biodiversità, portando allo sterminio di una grande quantità di specie diverse. Di fatto, però, quelle catastrofi, quegli
episodi così negativi, sono stati dei nuovi inizi e senza di essi la biodiversità attuale non sarebbe così rigogliosa.
La stessa presenza di Homo sapiens- sottolinea lo studioso – è figlia di queste catastrofi. Se non ci fosse stata in particolare l’ultima, quella di 65 milioni di anni fa e del tutto
insensata sul piano di una visione finalistica dell’evoluzione, noi non saremmo qui». Ma pensare che l’umanità non è necessaria e che il mondo continuerebbe anche senza di noi non è facile da
accettare. «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto a causa vostra?», scriveva non a caso Leopardi nel Dialogo della Natura e di Islandese. Dal fatto ineludibile che il mondo esiste, là
fuori, anche a prescindere da noi, possiamo però ricavare «un messaggio radicale», suggerisce il filosofo della scienza. «Nel libro ho cercato di giocarlo in chiave ambientalista: che diritto ha
una specie che è figlia della fine di altre specie di creare le condizioni della fine del mondo per una grande quantità di esseri che per causa nostra scomparirebbero?». E da queste
considerazioni di Pievani ci pare di poter evincere anche una consonanza con la proposta di Nuovo Realismo avanzata dal filosofo Maurizio Ferraris e che ora trova una ampia discussione nel libro
a più mani Bentornata realtà appena uscito per Einaudi. «Non sono mai entrato direttamente in quel dibattito e non condivido lo scientismo alla Dennett», precisa Pievani. «Ma sono d’accordo con
Ferraris su un punto fondamentale che riguarda il rapporto fra filosofia e scienza. Oggi non possiamo più fare filosofia ignorando i risultati della scienza che offre evidenze ineludibili. Per
esempio dalla nostra appartenenza alla biosfera nasce un rifiuto radicale di ogni visione totalitaria della storia. La contingenza ti obbliga a dire che nessuno può più affermare di avere capito
l’essenza, la logica profonda della storia». Tanto più se questa “logica” ha un fondamento metafisico. Uno degli aspetti più interessanti de La fine del mondo (e che completa il discorso che
Pievani aveva già avviato in Nati per credere, Codice editore) riguarda proprio la descrizione dei meccanismi con cui un pensiero delirante attribuisce significati inesistenti e bizzarri a
fenomeni naturali come, per esempio, meteore o allineamenti di pianeti. «In una coazione a ripetere, che tradisce una aspettativa inespressa e che non si smonta neanche di fronte al fatto che la
profezia non si avvera». La religione in modo particolare fornisce una cornice entro cui questi pensieri deliranti trovano sfogo condiviso? «È proprio così – commenta Pievani – il meccanismo è
particolarmente evidente in un caso emblematico analizzato da alcuni psicologi sociali negli anni 50: studiarono la vicenda di una donna che si era proclamata profetessa in uno degli Stati
americani della cintura della Bibbia. Nel libro Quando la profezia non si avvera ora recuperato da Il Mulino raccontano come la delirante profezia di visite di alieni e “conseguente” fine del
mondo avesse radunato intorno a lei un consenso piuttosto nutrito. Entrati nella setta camuffandosi, gli psicologi Festinger, Riecken e Schachter ebbero modo di osservare i meccanismi di auto
convincimento con cui gli adepti continuavano a credere alla fine del mondo», anche dopo che la profezia aveva fatto cilecca.
Simona Maggiorelli
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