Nella primavera di quest’anno, la giornalista egiziana Mona Eltahawy pubblicava in Foreign Policy un saggio altamente polemico, Perché ci odiano?, nel quale si chiedeva perché “una miscela tossica di cultura e
religione”, della quale beneficia solo la popolazione maschile, si accanisca sulla parte femminile della società nei paesi arabi.
La persecuzione ha innumerevoli facce e avviene alla luce del sole.
Il 90 per cento delle donne sposate egiziane, ricorda Eltahawy, ha subìto l’infibulazione (fuori legge solo dal 2008); un uomo può battere la moglie per ‘disciplinarla’; la poligamia è ammessa nella legge e nel costume della maggior parte dei paesi arabi (compreso l’Egitto); in Yemen è possibile sposare una bambina, riferendosi all’esempio del Profeta che avrebbe sposato ‘A’isha quando questa aveva sei anni, ma sposare una minorenne è previsto anche dal più liberale Marocco; le donne saudite sono regolarmente incriminate se osano guidare o andare in giro da sole.
Sebbene tutte queste pratiche dichiarino di avere fondamento nella legge islamica, Eltahawy, che si definisce “musulmana liberale”, si sforza, non senza qualche contraddizione, di non attribuire all’Islam la colpa dell’odio radicato nel costume maschile.
Nei paesi dove le donne circolano da sole, come in Egitto, è altissimo il rischio di assalti e violenze per cui, ad esempio, la metropolitana del Cairo ha istituito vagoni di sole donne.
La repressione delle rivolte del 2011 ha condotto ad abusi scioccanti sulle manifestanti, percosse e denudate con accanimento particolare, sottoposte a test della verginità dopo gli arresti.
La stessa Eltahawy, oggi un’opinionista di successo negli Stati Uniti, suo paese di accoglienza, è stata percossa e aggredita sessualmente dalla polizia nel corso di una manifestazione alla quale partecipava come osservatrice - ma poco prima era stata molestata da altri manifestanti.
Le cause dell’odio per le donne sono, in realtà, più complesse delle questioni di genere.
Bandiera dei movimenti modernisti che guardavano all’Occidente e poi di tutti i regimi laici mediorientali, dai più antichi come la Turchia di Atatürk e l’Iran di Pahlavī alla Tunisia di Bū Rqība, la Libia di Gheddafi, l’Egitto di Nasser, la Siria e l’Iraq baathisti, i diritti delle donne sono stati imposti a una società spesso recalcitrante, come strumento di un’ingegneria culturale tesa a umiliare e sradicare la mentalità tradizionale.
Dopo essere stati usati come merce di scambio politico con le classi medie nazionali e con i governi occidentali, essi hanno condiviso lo stigma lanciato contro i regimi e poi il loro crollo.
Quanto era già stato dimostrato dalla rivoluzione iraniana, con l’immediata repressione della libertà delle donne seguita alla vittoria di Khomeini, sembra ripetersi nei governi che, nel corso degli ultimi due anni, hanno preso il posto delle dittature mediorientali.
In Libia, la prima promessa del governo transitorio di Mustafa Jalil è stata la reintroduzione della poligamia, mentre in Egitto le norme che tutelano i diritti delle donne sono state ridicolizzate come “leggi di Suzanne”, la moglie di Mubā´rak che, dal 2007, ne aveva fatto una vetrina dell’immagine moderna del regime.
Le richieste di maggiori controlli sulla libertà delle donne e della limitazione dei loro diritti, presentate come espressione della libera volontà popolare, sono portate avanti non sono solo dai barbuti salafiti ma anche da alcune fra le (pochissime, per ora) donne elette nei nuovi parlamenti.
È il caso dell’egiziana Azza al-Garf, l’esponente della Fratellanza sostenitrice dell’inasprimento delle leggi sul divorzio femminile – fra le più liberali insieme a quelle tunisine – e della “libera scelta” dell’infibulazione per le ragazzine.
In Tunisia tuttavia, il tentativo di imporre, con l’articolo 28 della Costituzione, la “complementarietà” di uomini e donne, in accordo con la tradizione islamica, si è scontrato con l’opposizione trasversale della classe politica e si è stemperato in un dibattito lessicale, mentre in Egitto la Fratellanza al potere ha demandato ad Al-Azhar, il principale centro di elaborazione del diritto islamico nel mondo sunnita, l’approvazione della legislazione liberale del passato regime, in modo da darle nuova legittimità.
Le rivolte del 2011, se hanno ‘liberato’ la mentalità tradizionale dal riformismo di facciata dei regimi, hanno infatti avuto effetti più inattesi sulle donne arabe.
È ancora Eltahawy a sintetizzarli così: “Le donne egiziane si sono rese conto che, se sono state in grado di resistere a Mubā´rak, possono resistere anche ai loro padri, alle loro madri e ai loro fratelli”.
E ancora: “Si sono rese conto che c’è un Mubā´rak in ogni casa” e che “se lottiamo contro lo stato, lottiamo anche contro la cultura e la società”.
Da questa consapevolezza è nato su Facebook e Twitter, i media principali delle rivolte arabe, il forum La rivolta delle donne nel mondo arabo (The uprising of women in the arab world - Intifadat al-mar’ah fi-l ‘alam al-‘arabi), dove da più di un anno donne perlopiù giovani e giovanissime (e pochi uomini) da tutti i paesi arabi testimoniano della guerra contro le donne, ma anche del cambiamento non violento e irreversibile che, all’insaputa del mondo, sta trasformando le società mediorientali più profondamente di ogni cambio di regime.
Bruna Soravia
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u=211831 (domenica, 14 aprile 2013 21:49)
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