Perché dal 1294 ad oggi nessun altro pontefice ha rinunciato al suo trono? La risposta più ovvia è che Joseph Ratzinger è Joseph Ratzinger e che nessuno ha avuto da un lato il suo coraggio, dall’altro l’autorevolezza anche teologica per imporre un gesto così dirompente. La ripresa della scena nel Concistoro era più che mai eloquente: il papa ha comunicato la notizia in modo da mascherare ogni tipo di emozione e così i cardinali che assistevano alla scena hanno sembrato recepirla.
Il breve intervento del decano cardinal Sodano non si distingueva, apparentemente almeno, per intensità emotiva.
Sembrava una lezione accademica.
Eppure la portata della decisione è tale, per gli equilibri della gerarchia cattolica, da non poter essere valutata nel breve tempo.
Ma allora perché dopo Celestino V nessuno l’ha più fatto?
Non certo perché nessun pontefice ha avuto problemi di salute.
Le biografie di tutti i papi diventano ad un certo punto “patografie”, poco più che puri elenchi dei mali che essi soffrirono.
Un celebre schizzo di Bernini riproduce papa Innocenzo XI, che morì nel 1689, come uno scheletro adagiato su un letto riconoscibile quale papa solo per la tiara indossata sul capo.
La caricatura è tra l’altro datata ai primi anni del pontificato di Innocenzo e potrebbe anche essere legata a quell’obnubilamento della coscienza, di cui si disse nel processo di canonizzazione, che lo rese del tutto inattivo – forse perché terrorizzato, forse perché, come si disse, si stava preparando al compito – nei primi sei mesi dopo l’elezione.
Fu poi un papa talmente deciso nel suo sforzo di riformare la Curia da sollevare reazioni feroci che colpirono anzitutto i suoi più stretti collaboratori, molti dei quali finirono con l'attirare le attenzioni del Sant’Uffizio.
Ciò non impedì al pontefice di essere grande protagonista nella lotta contro il Turco, che nei suoi anni fu respinto a Vienna e a Buda.
Come facevano dunque a chiudere normalmente il proprio mandato pontefici eletti anziani e spesso designati proprio perché malati e destinati a durare poco?
La spiegazione di molti casi può essere colta analizzando i dibattiti che animarono la Curia nella seconda metà del Seicento vertenti sulla questione della abolizione del sistema nepotista.
La possibilità che veniva data ai papi di elevare ad un rango principesco i propri consanguinei oltre a creare problemi morali stava depauperando le casse pubbliche, e tuttavia il sistema nepotista sopravvisse a lungo e lo fece anche dopo essere stato formalmente soppresso nel 1692 ad opera di Innocenzo XII (il cardinal nipote sopravvisse infatti sotto altre vesti per più di un secolo).
Questo accadde perché il nepotismo papale, dico di quello dell’età moderna, aveva motivazioni funzionali precise.
A Roma, in controtendenza con quanto avveniva nelle monarchie dinastiche ordinarie, dove i ministri di carriera (in Spagna Olivares, in Francia Richelieu e Mazzarino) si trovarono ad essere avvantaggiati rispetto ai familiari stretti del re, si impose un sistema istituzionale fondato sul cardinal nipote.
Lo imponeva la natura particolare di una monarchia elettiva come il papato.
Su chi altro se non un consanguineo avrebbe potuto fare affidamento un pontefice spesso, lo si ripete, eletto anziano e malmesso, che si muoveva in un mondo, quello curiale, che già nel momento della sua incoronazione cercava di prevedere gli esiti – al fine di affiancarsi subito al possibile vincitore – della tornata elettorale successiva?
I parenti, si diceva, condividevano la causa del pontificato, non avevano motivo d’adulare il sovrano, potevano essere più liberi dei ministri di carriera da interessi e passioni privati.
Anche Cristo, si affermò in un dibattito nel tempo d’Urbano VIII, aveva voluto al suo fianco il cugino Giovanni.
Ancora, i consanguinei non avevano interesse a nascondere la verità, davano più garanzia di riservatezza e di segretezza nei negozi.
I rapporti di fedeltà e di amicizia si rompevano, quelli di consanguineità no.
Tra le diverse questioni che vennero sollevate, vi fu quella che immaginava per il cardinal nipote un ruolo di supplenza qualora il papa avesse sofferto una qualche forma di inabilità.
Un tema tabù, questo, di cui nessuno apertamente parlava e che si è poi riproposto negli anni della malattia di Giovanni Paolo II.
A compensarne le difficoltà si trovarono allora in molti: in primo luogo il cardinal Ruini, il suo segretario, lo stesso Joseph Ratzinger.
Per lo storico Giovanni Miccoli Benedetto XVI sarebbe addirittura succeduto al cardinale Ratzinger, tale fu il suo ruolo nell’ultima fase del papa polacco.
Molti pontefici seguiti a Celestino V riuscirono così ad arrivare alla fine perché protetti dalla loro famiglia o da uomini su cui riponevano estrema fiducia
e questa fattispecie si può immaginare consentì appunto a Giovanni Paolo II di “non scendere dalla croce”.
E Benedetto XVI?
Non ci si può che muovere tra ipotesi basate su pochi dati reali cui è possibile attingere.
Due elementi.
Il primo è il ricordo di quello che fecero il cardinale Ratzinger e altri nell’assistere un Giovanni Paolo II in così serie difficoltà.
Il riaffiorare di quella situazione straordinaria potrebbe aver spinto papa Benedetto XVI ad evitare di ripeterla.
Il secondo riguarda invece la qualità degli uomini che il pontefice dimissionario si è trovato attorno.
Un segretario di Stato molto discusso, una Curia tutta devastata da divisioni e fazioni rivelate dallo stesso pontefice oltre che dallo scandalo gravissimo dei cosiddetti “Vatileaks”.
Su chi avrebbe insomma potuto contare il papa per sopperire alle debolezze del suo fisico? Meglio lasciare.
E il papa lascia.
Sparirà al mondo, come ha detto, e avrà due soddisfazioni.
Quella di essere il primo tra i pontefici dopo Celestino V a conoscere il nome del suo successore e quella di poter intuire, già in vita, i giudizi storici, pur immediati, sul suo pontificato.
Benedetto XVI finisce e si consegna alla storia della Chiesa, Joseph Ratzinger no.
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