In Italia si usa “amerikano” (con la kappa) per attribuire a qualcuno o a qualcosa gli elementi più deteriori della cultura politica e sociale degli Stati Uniti d’America.
Anche in America esiste un atteggiamento del genere, tra coloro che sono capacità di autocritica in un paese che si ritiene eccezionale anche quando rifiuta l’idea dell’eccezionalismo americano: si tratta del sostantivo e dell’aggettivo “americanism, americanist”.
La questione è tornata prepotentemente d’attualità con l’elezione di papa Francesco, un gesuita latinoamericano con pochissimi contatti statunitensi, ma con una chiara percezione dell’antagonismo morale tra l’universo morale “americanista” (in materia morale ed economica) e quello di un cattolicesimo sociale orientato al “bene comune”.
Questo sarà uno dei fronti più difficili per un pontificato, come quello di Bergoglio, che non ha atteso molto tempo prima di tuonare contro le ingiustizie del sistema economico mondiale dominato dalla finanza americana.
Fino all’arrivo di papa Francesco, poco più di sei mesi fa, era stato relativamente facile per gli ideologi cattolici americani, come ad esempio George Weigel, riporre la questione dell’americanismo nel suo cassetto, quello della lettera Testem Benevolentiae di Leone XIII (1899) che aveva messo in guardia i cattolici americani dalle eccessive concessioni alla cultura americana, specialmente in tema di democrazia nella chiesa, rapporti ecumenici, e più in generale circa il rischio del cattolicesimo americano di farsi assorbire dal mainstream.
In altre parole, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI era stato agevole “cattolicizzare l’americanismo”, all’ombra della lotta senza quartiere lanciata contro l’americanismo liberal (teologia femminista, chiesa meno monarchica, e soprattutto aborto-contraccezione-omosessualità) e grazie ad una relativa indulgenza verso l’americanismo liberista (in economia).
Con papa Francesco è diventato molto più difficile per il cattolicesimo americano continuare ad invocare il magistero del papa per perpetuare il trinceramento e la reciproca scomunica tra le due principali culture cattoliche statunitensi.
Lo si è visto, negli ultimi giorni, con la fredda accoglienza riservata all’intervista di papa Francesco rilasciata alle 16 riviste dei gesuiti in tutto il mondo, e pubblicata negli Stati Uniti dal settimanale “America Magazine” (il primo dei cinque traduttori dell’intervista dall’originale italiano in inglese è il sottoscritto).
In questa intervista, in alcuni passaggi papa Francesco si rivolge chiaramente (anche se non per nome e cognome) ai cattolici americani, e specialmente a quei vescovi americani, come Tobin di Providence, in Rhode Island, e Chaput di Philadelphia che hanno dichiarato pubblicamente di non gradire il mutamento di enfasi nelle parole del papa circa le questioni-chiave per la chiesa cattolica negli USA: aborto, contraccezione, omosessualità.
Non c’è da stupirsi che i media americani abbiano colto subito il controcanto papale al tono generale dell’episcopato americano di questi ultimi anni, e che i vescovi americani abbiano fatto finta di niente di fronte all’intervista del papa, o abbiano emesso comunicati ispirati ad una vaga promessa di obbedienza al magistero del papa (per un esempio di uno dei vescovi meno entusiasti di papa Francesco, si veda quello di St. Paul-Minneapolis).
Non è molto diverso da quanto i vescovi americani fecero nel 1899 per nascondere ai loro fedeli la Testem Benevolentiae di Leone XIII.
Massimo Faggioli
Scrivi commento