Nell’era dei grandi comunicatori, papa Francesco giganteggia.
Vince oggi chi semplifica, e soprattutto si distingue e s’afferma chi semplifica (sulla base magari di strategie assai raffinate e complesse) pensieri già semplici: chi comunica alla pancia, ai portafogli, alle frustrazioni, alla rabbia; agli istinti, insomma, delle persone.
La semplicità del pontefice argentino nasconde invece complessità.
Poniamo l’ultimo episodio.
Il papa con parole elementari se non anche spiritose ha spiegato agli allievi delle scuole gesuite il motivo per cui non risiede nell’appartamento pontificio.
Ho bisogno di compagnia, ha detto; è una questione “psichiatrica”.
Dietro queste battute rivela invece un tentativo inedito di risoluzione di quello che è uno dei principali problemi della struttura di governo papale.
Il pontefice romano è un sovrano assoluto, la sua parola conta più di quella di “cento papi morti”, come si diceva a significare che la sua volontà era più forte della tradizione e delle norme, e però è anche un uomo solo, legato al mondo da una cerchia di persone da cui dipende la qualità del suo governo.
Per dir meglio, fino alla metà del ‘500 il pontefice romano viveva immerso nella Corte.
La struttura stessa delle sue residenze lo obbligava a ciò, mescolando spazi privati e ambienti pubblici.
Nei resoconti del tempo redatti da curiali, agenti di prelati, ecc., del capo della chiesa sappiamo moltissimo e conosciamo elementi anche molto intimi.
Chiunque aveva facilità ad incontrarlo.
La riorganizzazione della curia in congregazioni del secondo ‘500 costituì una innovazione straordinaria.
Le sedi di questi “ministeri” diventarono in gran parte le residenze dei loro prefetti o decani e si distaccarono dalla figura fisica del pontefice.
Questi poté guadagnare intimità e le scelte operate soprattutto da Paolo V (papa dal 1605) caratterizzarono un nuovo modo di fare il papa (anche nelle altre corti monarchiche, del resto, i sovrani si ritiravano dalla scena e divenivano “re nascosti”).
Nei palazzi vaticani il borghese rovesciò la collocazione degli ambienti per crearsi una residenza quasi segreta nei pressi dell’attuale corridoio delle carte geografiche, ben noto ai visitatori dei Musei vaticani.
In tal modo, le stanze di Raffaello, che erano già state residenza di diversi pontefici, diventarono anticamere e guadagnarono la denominazione di stanze degli scudieri, dei cavalleggeri e delle lance spezzate.
Nel nuovo Palazzo papale del Quirinale, che sarebbe divenuto la residenza stabile dei papi nell’età moderna e fino a Pio IX, Paolo V e successori ebbero a disposizione una porzione dell’edificio e stanze private collocate nella parte più antica del complesso, quella sotto il Torrino dove è ora lo studio di rappresentanza del Presidente della Repubblica.
Il papa si allontanava dalla sua corte e dovette però circondarsi di una famiglia (relativamente) ristretta, di uomini di sua estrema fiducia capitanati dal cardinal nipote.
In un sistema elettivo quale quello papale, ove, come si diceva, i curiali più ambiziosi, appena eletto il papa, già si mettevano a congetturare su chi avrebbe potuto essere il suo successore nelle cui grazie conveniva entrare per tempo, i funzionari di carriera non ispiravano più di tanto affidamento.
Solo i consanguinei, tale almeno la sensazione, garantivano la fedeltà, la sincerità di cui aveva bisogno il pontefice: al suo successo era legata la sopravvivenza della stirpe anche dopo la sua morte.
La separatezza del papa generò insomma il secolo d’oro del nepotismo, sistema che aveva peraltro molte controindicazioni, e che fu definitivamente (o quasi) superato, solo agli inizi del XIX secolo.
Iniziava allora il tempo, col cardinale Ercole Consalvi e con papa Pio VII, del Segretario di Stato, designato quale primo attore della curia e filtro principale tra il papa e il mondo.
Per dir meglio – per semplificare, anzi, senza disporre nel far ciò delle straordinarie capacità di Francesco-Bergoglio –, il Segretario di Stato e, a mano a mano, il segretario particolare del pontefice divennero elementi essenziali del nuovo sistema.
Un modello, questo, posto in seria crisi dagli eventi che hanno accompagnato gli anni di Benedetto XVI.
Un papa straordinariamente produttivo sotto il profilo intellettuale, che ha lasciato però ampio spazio ai suoi più diretti collaboratori con effetti risaputi e imbarazzanti.
Non è certo un caso che Bergoglio torni spesso sul tema del personalismo e del carrierismo tra gli uomini di chiesa riproponendo con ciò un dibattito sempre vivo da secoli.
Quale il suo antidoto, in questi mesi?
L’immergersi nella comunità della casa s.Marta, non circondato da una famiglia ristrettissima, ma esposto, anzi, riesposto così come i papi più antichi alla frequentazione anche occasionale di altri.
Nelle numerose occasioni sociali offerte da quel tipo di coabitazione – dagli incontri nella cappella della casa: si pensi allo spazio che hanno guadagnato le sue prediche nella messa quotidiana; alle conversazioni a tavola con interlocutori, si presume, diversificati –, il papa si garantisce non solo la compagnia di cui dice d’aver bisogno, ma attinge anche informazioni, motivi di riflessione, che gli consentono di aggirare quell’isolamento – naturalmente più o meno caratterizzato a seconda della personalità del sovrano – che dal primo ‘600 era divenuto, appunto, con vantaggi e inconvenienti, un modello di governo.
Francesco ha un suo segretario particolare, di cui però pochi rammentano il nome (gli ultimi due segretari, ricordo, sono divenuti arcivescovi ed erano sempre stati sotto i riflettori).
Il Segretario di Stato Bertone non appare più.
Difficile pensare che il suo successore, almeno con questo pontefice, si distinguerà per protagonismo.
Francesco fa il vescovo, e interpreta così soprattutto la propria funzione di papa.
Un pontefice “tradizionale” ha bisogno di ministri e, per dirla all’antica, di favoriti; un vescovo ha piuttosto bisogno di uomini tra cui stare e cui dedicarsi.
E ciò Bergoglio sembra riuscire a fare assai bene, raccogliendo perciò i primi malevoli commenti da parte di chi ora viene escluso, e lo fa stando al pensionato di s.Marta e non al terzo piano del Palazzo di Sisto V.
Non è solo una questione di socialità, quanto di superare la fase di un degenerato “segretarismo” iniziato nell’ultimo periodo del papato di Giovanni Paolo II e proseguito con danni maggiori con papa Ratzinger.
Cosa accadrà poi domani (si affermerà una qualche forma di gestione collegiale, magari sul modello della commissione degli otto porporati, o che altro?) si vedrà.
Questo (probabilmente) nasconde l’uscita apparentemente leggera del papa.
Se gli storici riuscissero ad acquisire da Francesco un minimo della sua capacità di spiegare le cose – il che ancora non avviene, come si vede dalle righe che precedono –, la storia non sarebbe più l’inutile passatempo di pochi che è oggi e recupererebbe, con benefici effetti, la funzione che aveva una volta.
Se poi anche i politici…
Antonio Menniti Ippolito
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