La giovane morta in Irlanda perché i medici le hanno impedito di abortire è solo l'ultima vittima della lunga guerra della Chiesa contro le donne.
Alla fine di ottobre una giovane indiana è morta in Irlanda di setticemia perché i medici, nonostante le gravi complicazioni della sua gravidanza, le hanno rifiutato l'aborto affermando: «Questo è un Paese cattolico». Ma sarebbe sbagliato vederlo come un caso isolato e non come l'ultimo di una lunga serie di femminicidi commessi dalla chiesa col pretesto di "difendere la vita".
La contraccezione è assassinio
Centinaia di migliaia di donne sono morte nel corso dei secoli a causa del divieto fatto dalla chiesa sia di evitare una gravidanza pericolosa o letale col ricorso ai contraccettivi, sia di interromperla con l'aborto. I contraccettivi, considerati "vergognosi" già da Agostino, furono ufficialmente equiparati all'omicidio col documento Si aliquis del 906 circa, recepito nel Codice di Diritto Canonico dal XIII secolo al 1917: «Se qualcuno per soddisfare il proprio piacere o per un odio di cui è consapevole, procura una lesione a un uomo o a una donna, così che da lui o da lei non possano essere generati figli, o se uno dà loro da bere una pozione per cui l'uomo non possa generare o la donna concepire, costui deve essere considerato un assassino».
E, nei secoli successivi, il divieto si estese anche ad altri contraccettivi e in particolare al preservativo cui «la donna deve opporre resistenza come a un violentatore» (Santo Ufficio, 1916), sicché fu possibile evitare i pericoli d'una gravidanza rischiosa solo con «un'eroica astinenza» (Guy, 1850) o ... con la morte, se la moglie doveva soddisfare il debito coniugale per non indurre il marito all'adulterio. «La moglie non deve usare contraccettivi», stabiliva alla metà del XX secolo il Vicariato del vescovo Keller di Monaco, «neppure come "legittima difesa" ad esempio per proteggersi da un marito affetto da malattie sessuali [...] che porterebbero la donna a correre un evidente rischio di vita in caso di gravidanza».
Non è mai lecito uccidere l'innocente
Quanto all'aborto, Pio XI, nella Casti connubii del 1930, scrive: «Già abbiamo detto [...] quanta compassione noi sentiamo per la madre, la quale, per ufficio di natura, si trovi esposta a gravi pericoli, sia della salute, sia della stessa vita: ma quale ragione potrà mai avere la forza di rendere scusabile, in qualsiasi modo, la diretta uccisione dell'innocente? [...] A coloro, infine, che tengono il supremo governo delle nazioni, e ne sono legislatori, non è lecito dimenticare che è dovere dell'autorità pubblica di difendere con opportune leggi e con la sanzione di pene, la vita degli innocenti». Le madri dunque, di cui il papa ha «compassione» ma che evidentemente non considera «innocenti», devono essere punite per legge se abortiscono. E Pio XII ripete nel discorso alle ostetriche del 1951 che «salvare la vita della madre è un nobilissimo fine; ma l'uccisione diretta del bambino come mezzo a tal fine, non è lecita».
Il divieto di «uccidere l'innocente» vale anche quando il decorso sfavorevole della gravidanza porti a dover scegliere fra salvare la madre o il feto, anche solo il tempo necessario a battezzare quest'ultimo. Agli inizi del XVII secolo un'istruzione per le levatrici cattoliche tedesche recitava: «Qualora si debba provvedere alla madre o al bambino, essa [la levatrice] deve far si che il bambino venga battezzato, in quanto è meglio che la madre muoia santamente, che non il figlio muoia senza battesimo». Così la pensa anche il maggior teologo del Settecento, Alfonso de' Liguori. E che sia preferibile salvare la vita (eterna) del bambino, piuttosto che quella terrena della madre lo scrive nel 1906 anche il teologo Gopfert: «la speranza [...] di poter sicuramente battezzare [...] il bambino giustifica il pericolo che l'operazione comporta sempre per la madre».
Nel suo libro più noto (Eunuchi per il regno dei cieli, Rizzoli, 1990) la teologa Uta Heinemann, che più tardi lascerà il cattolicesimo, racconta che alla fine degli anni Trenta George Simenon, il "padre" dell'ispettore Maigret, aveva accompagnato la moglie Denise, prossima al parto, in una clinica ginecologica dell'Arizona, loro segnalata come la migliore. Ma all'entrata trovarono un avviso che diceva: «In caso di grave incidente il destino del bambino prevale su quello della madre in base alla decisione del primario e della superiore delle suore». Allora, scrive Simenon, «un brivido di raccapriccio ci corse lungo la schiena e ci allontanammo in punta di piedi». Loro figlio, conclude Heinemann, nacque in un ospedale meno cattolico.
Due morti è meglio di uno
Il divieto di «uccidere l'innocente» vale anche se la morte della madre non salva il feto. «La motivazione secondo cui risparmiando il bambino per lo più ne vanno di mezzo due vite, mentre con il sacrificio del bambino solo una, fa una grande impressione», scrivono Mausbach e Tischleder, ma «L'uccisione violenta di una vita senza colpa non è mai lecita; non può esserlo, senza indurre gli uomini a ulteriori passi funesti ed esiziali [...] È invece permesso [...] il ricorso a farmaci e operazioni indirizzati non contro la gravidanza, ma contro una contemporanea malattia mortale della madre, e che per accidens possono causare l'aborto, a condizione che non venga pregiudicata la possibilità del battesimo del bambino». Gesuiticamente i due teologi accettano dunque di eliminare il feto ma solo «per accidens», cioè nel caso fortunato (per la madre) che essa abbia un'altra malattia mortale, oltre alla gravidanza.
A diffondere fra i fedeli l'idea che è meglio far morire madre e figlio piuttosto che salvare solo la madre contribuirono negli anni Ciquanta-Sessanta del Novecento due manuali teologici molto diffusi di Jone e Haring. Il secondo ebbe anzi la sfrontatezza di aggiungere, nella riedizione del 1967: «Vi furono medici che rimproverarono alla Chiesa il fatto che essa condanna anche la motivazione vitale [l'aborto per salvare la vita alla madre]. In realtà la medicina fu stimolata salutarmente da tale proibizione a sviluppare meglio la prassi medica, così che oggi può provvedere quasi sempre alla vita della madre e del figlio».
«Certo molte madri devono la loro morte alle salutari indicazioni dei papi», commenta Uta Heinemann, «ma in compenso i medici sono loro debitori del progresso della loro scienza, al quale, senza l'esortazione papale che passa sui cadaveri, non avrebbero certo aspirato». Resta naturalmente inteso che le donne, dopo essersi sacrificate per stimolare «la prassi medica», in dati casi dovranno continuare a farlo. Spiega infatti Haring: «[Ancora oggi] se non c'è nessun altro modo di salvare la vita del bambino e specialmente di assicurargli il battesimo, la madre è obbligata a sottoporsi a [...] operazioni che mirano principalmente alla salvezza del bambino, mentre espongono la madre a certi pericoli». In conclusione, nota sarcasticamente Heinemann, se le donne muoiono oggi meno di quanto accadeva un tempo è grazie al progresso della medicina, non certo a quello della teologia.
Walter Peruzzi
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