«Far west procreativo», «rivoluzione antropologica», fine della democrazia. Le parole usate dal mondo cattolico ed ecclesiastico contro la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato un altro pezzo della legge 40 sulla fecondazione assistita sono severe e violente. Del resto quella sulla fecondazione assistita non è una delle tante campagne in difesa dei «principi non negoziabili», ma la battaglia che si è configurata come una sorta di rivincita sui referendum su divorzio e aborto. Prima per far approvare la legge nel 2004. Poi per far fallire il referendum abrogativo del 2005, invitando i cattolici all’astensione, tanto che all’indomani del voto del 12–13 giugno il quotidiano della Cei Avvenire aprì la prima pagina con un gigantesco «74,1%», ovvero la percentuale degli astenuti, tutti arruolati fra le fila dei favorevoli alla legge. Infine, negli anni successivi, per rintuzzare ogni «attacco» al provvedimento da parte di giudici ed organismi europei. Ovvie quindi le reazioni negative, affidate per lo più ai dirigenti laici delle associazioni e dei movimenti organici alle istituzioni ecclesiastiche. Da parte vaticana, infatti, si è scelto il basso profilo. La sentenza «lascia sconcerto e dispiacere» e «crea delle conseguenze difficili da gestire», lo scarno commento di mons. Pegoraro, della Pontificia accademia per la vita. Sull’Osservatore Romano poche righe senza commenti a pagina 2: «È illegittimo il divieto alla fecondazione eterologa. Lo ha sancito la Corte costituzionale, bocciando i punti della legge 40 che vietavano in modo categorico il ricorso a un donatore esterno nei casi di infertilità assoluta». Più netta Radio Vaticana, che fa parlare Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la vita: «È una pronuncia grave» perché annulla una norma che «salvaguardava i nascituri» ed «evitava il lucroso commercio di gameti che va sotto il falso nome di donazione e il conseguente sfruttamento delle donne». Poi l’affondo. È stata «stravolta la prospettiva antropologica» alla base della legge, «ci dobbiamo chiedere chi legifera in questo Paese: il Parlamento democraticamente eletto o la Corte Costituzionale?»
Silenzio da parte dei vescovi, mentre si scatenano i vertici delle associazioni, i cui commenti vengono rilanciati dal Sir, l’agenzia della Cei. Scienza & Vita, fondata proprio ai tempi del referendum del 2005, come «braccio operativo» della presidenza Ruini: «Si apre un inesorabile vuoto normativo che prelude al ritorno a quel far west procreativo che in questi anni era stato possibile contenere», dichiarano i presidenti Paola Ricci Sindoni e Domenico Coviello. «Viene legittimata ogni pratica di riproduzione, con il solo pretesto che tutti, comunque, hanno diritto a veder garantiti i propri desideri. La cultura giuridica si rimette al dominio della tecnoscienza, legittimandone lo strapotere» e indebolendo «i capisaldi della civiltà occidentale». La «cultura dominante ha deciso di ignorare l’interesse del più piccolo e del più debole», dice Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita. «Una cultura che non ha la maggioranza e che ha un’ancor meno sensibilità democratica, visto che continua a farsi beffe della volontà popolare espressa in un referendum» e «preferisce dare picconate alla legge 40». I giudici «rinuncino a vestire i panni del legislatore». E il vicepresidente del Mpv, Morandini, evoca scenari apocalittici: siccome «non sarà consentito conoscere l’identità dei propri genitori naturali, i figli nati da eterologa potranno magari un domani contrarre matrimonio con altri figli nati da eterologa e che magari sono figli dello stesso loro padre o della loro madre». Grida anche Famiglia cristiana, il settimanale dei Paolini solitamente dialogante, che sul suo sito internet titola «Ultima follia italiana, e lancia un dibattito online. Noi Siamo Chiesa l’unica voce cattolica in controtendenza: «Rimangono tutti i problemi etici a cui ogni coppia si trova di fronte, ma ora la legge 40 è stata inevitabilmente modificata di fronte ai costi pesanti di un fenomeno ormai diffuso, quello della «emigrazione» per sottrarsi al divieto italiano, che l’ordinamento giuridico non poteva continuare ad ignorare».
Luka Cocci
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