La Grande Guerra convertì la chiesa. L’esplosione del conflitto parve inizialmente a papa Benedetto XV la tragica conferma di una visione catastrofista della storia dell’umanità. Già Pio X, che riuscì ad assistere solo alle prime settimane delle operazioni militari, aveva colto il carattere enorme della guerra che stava per investire l’Europa: «Eminenza le cose vanno male – gli capitava di dire al segretario di Stato Rafael Merry del Val – viene il ‘Guerrone’!». L’ultimo intervento ufficiale pronunciato da papa Sarto prima della morte, che sarebbe sopraggiunta il 20 agosto 1914, fu modulato su toni più cupi che mai: il futuro – disse ai cardinali nel concistoro segreto del 27 maggio 1914 – appariva funestato da terribili mali, punizione per i gravissimi errori di quanti, anche dentro la chiesa, avevano creduto nel trionfo della modernità.
Spettò però al nuovo pontefice fornire la chiave di lettura della guerra in corso: la gigantesca carneficina era il castigo divino per gli Stati che avevano divorziato dalla religione santa di Cristo rifiutando di osservare, nelle leggi, nelle idee e nei costumi, le norme della cristiana saggezza. Ne conseguiva che le nazioni avrebbero riconquistato la pace solo a patto di ritornare alla dottrina del vangelo e della chiesa. Durante la guerra la santa sede si adoperò costantemente per promuovere iniziative assistenziali e favorire la cessazione dei combattimenti. Dopo tre anni di scontri sanguinosi in cui avevano già perso la vita milioni di giovani, Benedetto XV inviò ai capi delle nazioni la celebre Nota dell’agosto 1917 in cui si riferiva al conflitto in corso come a un’«inutile strage», facendo balenare la possibilità di un abbandono della legittimazione della guerra da parte della chiesa. Ma nei Paesi belligeranti la religione si era arruolata per giustificare e santificare la guerra come una crociata contro il male. I cattolici, non diversamente dai protestanti e dagli ortodossi, contribuivano a realizzare quella fusione tra cristianesimo e nazionalismo come mai nel passato era accaduto in Europa. Dopo l’intervento il mondo cattolico italiano, che si era riconosciuto nella sua maggioranza nelle politiche di neutralismo della santa sede, si convertì alla guerra: la pace era auspicabile, ma la neutralità non poteva essere assoluta, condizionata come era, secondo la dottrina tradizionale della chiesa, alle decisioni del governo, solo legittimo detentore del potere. Rispetto ad esso i cattolici avrebbero saputo dimostrare di essere ubbidienti cittadini, italiani come e più degli altri, glissando, al massimo, sul triplicismo. Durante gli anni della guerra la religione condusse quell’operazione di costruzione di senso fornendo motivazioni e spiegazioni per uno scontro militare che sempre di più nel corso del suo svolgimento, per la capacità distruttiva delle armi utilizzate e l’equilibrio delle forze in campo, assumeva il volto assurdo dello sterminio cui risultava arduo conferire una comprensibile razionalità attingendo solo alle ragioni del consorzio umano. Al fronte, erano i cappellani militari a indirizzare il diffuso bisogno di aiuto e di protezione dei soldati verso forme di religiosità popolate di santi, madonne, sacri cuori, medagliette, acque benedette, e a cercare in molti casi di attenuarne gli aspetti più superstiziosi. Alcuni di loro, come il prete asiaghese don Giovanni Rossi dell’11° reggimento Granatieri di Sardegna, ampliarono i propri compiti sino a divenire i principali interlocutori epistolari di chi, a casa, era in preda al panico per la mancanza di notizie del figlio, del padre, del marito al fronte, o di quanti, rassegnati alla perdita, cercavano informazioni sugli ultimi momenti della vita del congiunto. Anche lontano dai campi di battaglia vescovi, sacerdoti, associazioni cattoliche furono in prima linea per riempire di un senso religioso l’impegno bellico, marginalizzando il più possibile l’esperienza della morte dall’orizzonte mentale di milioni di uomini, senza per questo rinunciare ad esercitare un ruolo di primo piano nella condivisione dei lutti con una riconosciuta funzione consolatoria. E, per la prima volta, un esplicito senso patriottico coinvolse l’associazionismo femminile cattolico nato all’inizio del secolo, che si trovò fortemente coinvolto, nel fronte interno, nell’opera di sostegno alle popolazioni in difficoltà. Da un altro punto di vista, come è stato scritto, fu il trionfo dell’«etica della rassegnazione», terreno su cui i cattolici, anche agli occhi delle autorità militari, avevano più titoli di credito di chiunque. Sta di fatto che il laicismo liberale perdeva una delle sue armi storicamente più efficaci: la denuncia del cattolicesimo come forza estranea o in radicale conflitto con la nazione.
Lucia Ceci
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