I futuri preti calabresi studieranno i rapporti fra la chiesa e la ‘ndrangheta. È la decisione presa durante la sessione primaverile della Conferenza episcopale calabra – svoltasi a Catanzaro lo scorso 7-8 aprile – nella quale i vescovi hanno stabilito che negli Istituti teologici della regione venga introdotto uno specifico corso sul tema “chiesa e ‘ndrangheta”.
Nel 2009 a Palermo venne promossa una iniziativa analoga: nel seminario diocesano venne organizzato un ciclo di 4 incontri dedicato al tema chiesa e mafia e riservato a 36 seminaristi che presto sarebbero diventati preti. Ma appunto si trattava di un solo seminario diocesano e di una iniziativa ad hoc. Quella della Conferenza episcopale calabra presenta invece caratteristiche diverse: riguarda tutti gli Istituti teologici dell'intera regione, e soprattutto la storia e le relazioni fra chiesa e criminalità organizzata mafiosa diventano materia di studio non episodica ma strutturale dei percorsi formativi.
Tanto più in una regione dove c’è una presenza capillare della ‘ndrangheta e dove i rapporti fra la chiesa e mafia hanno manifestato luci e ombre. Da una parte episodi di “vicinanza” come la vicenda del matrimonio di Caterina Condello e Daniele Ionetti, figli di due noti boss reggini, che hanno potuto tranquillamente celebrare le loro nozze nella cattedrale di Reggio Calabria con tanto di benedizione papale; oppure come i legami molto stretti, e di antica data, della ‘ndrangheta con il santuario della Madonna di Polsi a San Luca in Aspromonte, spesso luogo di riunione dei capi-mafia. Dall’altra l’impegno antimafia di diversi vescovi – a cominciare da mons. Giancarlo Bregantini, a Locri dal 1994 al 2007 –, di molti preti sovente oggetto di minacce e intimidazioni da parte delle ‘ndrine e della chiesa e dell’associazionismo di base, come le cooperative del consorzio sociale Goel, nella Locride.
La decisione dei vescovi calabri pare allora particolarmente significativa, perché tesa ad intervenire nei percorsi formativi dei preti e del religiosi. Ma è l’intera prima parte del documento finale della Cec ad essere dedicata alla questione mafiosa. I vescovi, si legge, «ribadiscono l'inderogabile importanza di un cammino educativo che coinvolga i ragazzi fin dai primi anni della loro vita, incentrato sulla frontiera della legalità, indispensabile per una crescita autenticamente umana, oltre che civile e sociale della nostra terra e della vera libertà». E rilanciano precedenti interventi, sia collegiali sia di singoli vescovi, in cui il fenomeno mafioso era definito un «cancro esiziale e soprastruttura parassitaria, che rode la nostra compagine sociale, succhia con i taglieggiamenti il frutto dell'onesto lavoro, dissolve i gangli della vita civile». Per questo, ricordano i vescovi, sono ineludibili il «coraggio della denuncia» e la «fuga da ogni omertà».
Luka Cocci
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