Più che due papi, a San Pietro «si è santificato il papato». Nel coro di osanna trasmesso a reti unificate dai media di tutto il mondo, anche all’interno della chiesa cattolica si leva qualche voce che rompe l’unanimismo e solleva rilievi critici sul «sistema della canonizzazioni» e in particolare sulla proclamazione di Giovanni Paolo II santo.
Si tratta di Noi Siamo Chiesa, il principale movimento cattolico internazionale progressista (Imwac, International movement We are Church), presente in oltre 20 nazioni, che da quando è nato, nel 1996, si batte per una riforma della chiesa in direzione di una maggiore collegialità, pluralismo e povertà. «L’intero sistema delle canonizzazioni deve essere messo in discussione e radicalmente democratizzato», spiega Martha Heizer, presidente di Imwac. «La canonizzazione dei due papi, in particolare quelle dei pontefici morti da poco, glorifica la natura superiore e l’infallibilità del papato a spese del ruolo del Popolo di dio». Forse quando un prete è eletto papa «la santità diviene un corollario del suo ruolo? O forse solo santi sono eletti al pontificato?», si chiede. Più probabilmente il fine diventa la santificazione del papato, del centralismo romano e dell’istituzione ecclesiastica, in contrasto con il Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII che – a proposito di contraddizioni – è stato pure lui proclamato santo, insieme a Wojtyla. «Lo sfavillante e glorioso sfarzo di una chiesa cattolica medievale domani apparirà di nuovo in piazza s. Pietro, in contraddizione con le vite di quella parte del Popolo di dio e di tanti altri che nel mondo vivono in povertà, marginalità ed abbandono», sottolinea Imwac, che però mostra di nutrire speranze in papa Francesco: «Gli offriamo il nostro appoggio mentre cerca di riformare questa chiesa trionfalistica in una chiesa della solidarietà coi poveri».
Sulla santificazione di Wojtyla – a tempo di record grazie anche alle norme che egli stesso modificò, accorciando da 50 a 5 anni il tempo che deve trascorrere dalla morte – poi il dissenso si fa più netto. Lo puntualizza la sezione italiana di Noi Siamo Chiesa, elencando «evidenti meriti storici ed evangelici» – il dialogo interreligioso soprattutto con ebrei e musulmani, l’opposizione alla guerra in Iraq, il mea culpa per i peccati della chiesa nella storia durante il Giubileo del 2000 – ma anche ricordando limiti ed errori in un dettagliato dossier: la repressione dei teologi non allineati, le posizioni integraliste sulla morale sessuale, il rifiuto del dibattito sulla condizione delle donne nella chiesa e sul celibato ecclesiastico, l’omertà sugli abusi sessuali del clero sui minori, l’accettazione di una struttura come lo Ior «spesso complice di poteri oscuri e criminali» – erano gli anni di Marcinkus, Calvi e del Banco ambrosiano –, la nomina di vescovi quasi tutti di orientamento conservatore, il rafforzamento del centralismo romano a danno dell’autonomia delle chiese locali e della collegialità episcopale, la condanna della teologia della liberazione e delle nuove teologie, la diffidenza nei confronti di mons. Romero e dei movimenti popolari in America latina, con il sostegno, implicito od esplicito, ai regimi autoritari (resta storica la foto di Giovanni Paolo II affacciato al balcone della Moneda con Pinochet nel 1987).
Ma ad esprimere perplessità sulla canonizzazione di papa Wojtyla, oltre alla chiesa di base e a diversi teologi progressisti sono stati anche autorevoli esponenti della gerarchia ecclesiastica. Il card. Danneels, ex arcivescovo di Bruxelles e primate del Belgio, che criticò la creazione di una «corsia preferenziale» per santificare Giovanni Paolo II a tempo di record. E il card. Martini che, come è rivelato dal libro di Andrea Riccardi appena pubblicato dalle edizioni San Paolo (La santità di papa Wojtyla), pur all’interno di un giudizio complessivamente positivo, nella sua deposizione al processo canonico manifestò delle riserve su Wojtyla: l’eccessivo appoggio ai movimenti, la tendenza a porsi «al centro dell’attenzione», la scelta di restare sul trono di Pietro fino alla fine nonostante le condizione di salute gli impedissero di esercitare il suo ministero.
Luka Cocci
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