Era insopportabile: la barra di ferro era alta non più di due centimetri, e però bastava a coprire perfettamente l’ultima parola del titolo. Così rimaneva il mistero totale, la sospensione del respiro, l’indecisione assoluta. “Perché non sono…” recitava quel titolo su tre righe, col “perché” in maiuscolo che occupava da solo la prima riga, “non” e “sono” felicemente accoppiati nella seconda, e la terza, dannazione, totalmente oscurata dalla barra di ferro. Così restavo appeso col punto interrogativo in testa, alla fermata dell’autobus che mi portava a scuola. “Perché non sono” che cosa? Giovane, forse: il resto della copertina mostrava infatti la faccia dell'autore seria e orgogliosamente vecchia, che il grafico crudele della Longanesi aveva deciso di immergere nel viola , chissà perché. Il risultato era quello di rendere ancora più cupa quella faccia seria: e quindi "Perché non sono allegro", diceva magari quel titolo, allora. O forse "Perché non sono socievole", o "Perché non sono rosa pallido come tutti gli altri". Chissà.
Quella della barra di ferro non era certo una censura voluta. I tascabili erano esposti nella porta dell’edicola, contro il vetro, ma la struttura della porta richiedeva appunto delle sottili sbarre che avevano il duplice compito di sorreggere libri e periodici, e nel contempo renderli visibili attraverso il vetro. Funzionavano abbastanza bene per quel che dovevano fare: i titoli sono quasi sempre scritti a caratteri grandi, e una sbarra alta meno di due centimetri che attraversa una copertina di una rivista patinata non la rende per questo illeggibile. Quasi mai.
L’edicola era un’edicola di periferia, e per di più la città era una città di provincia. Città operaia, tutt'altro che ricca: le poche librerie vere erano tutte in centro ma anche lì si contavano sulle dita di una mano, lasciando perfino qualche dito d’avanzo a fine conteggio. Le cartolibrerie erano più frequenti, proprio perché campavano più grazie alla parte “carto” che alla parte “libro”; ma comunque la diffusione della parola scritta nella periferia suburbana era demandata alle edicole, che a quei tempi vendevano solo giornali, e non le cento cose che vendono adesso. Solo quotidiani, settimanali, mensili; e solo carta: niente plastica, legno, ferro, VHS, DVD, CD. Anche i pochissimi libri esposti – tutti supertascabili, Oscar Mondadori o Pocket e Superpocket Longanesi – erano visti quasi come una violazione della missione istituzionale del sacro chiosco del giornalaio. In quell'edicola vicina alla fermata dell'autobus mio padre comprava ogni sabato la “Settimana Enigmistica” mentre mia madre, qualche rara volta, si permetteva il lusso di un "Grand'Hotel": scritto proprio così, con l'apostrofo, se non ricordo male; e chissà se aveva davvero senso quell'apostrofo che tentava di italianizzare due parole straniere. Io, finché facevo le elementari, ci compravo giusto qualche pacchetto di figurine, a dieci lire il pacchetto. Servivano per giocarci a battimuro, soffietto, barattolo: non erano un acquisto vero e proprio, perché le figurine erano la vera moneta di scambio, a quell’età. E l’edicola era una specie di banca, di cambio, exchange, wechsel: ti do venti lire di metallo, cara edicola, e tu mi dai in cambio i soldi dei ragazzini: le figurine. Ci si compravano giornaletti e liquirizie da chi li aveva, con le figurine; non era mica solo per guardare le facce ingrugnite dei calciatori che uno le voleva.
Ma era ormai il 1973, quindici anni compiuti, con già addosso l'esaltante indipendenza dell'autobus preso tutti i giorni per andare dalla periferia al centro, fino al liceo. Con amici che già compravano sigarette, trecento lire a pacchetto, lostesso prezzo d’un cinema di seconda visione. Seconde visioni, già: roba che forse bisognerebbe spiegare anche quelle cosa fossero, ormai. E le lire ancora contate in decine e centinaia, e quel “Perché non sono chissachè”, col vecchio color viola in copertina, ad esempio, che ne costava ben seicento.
Forse la tv era ancora in bianco e nero. Certo trasmetteva cose molto diverse di quelle di adesso. E poteva capitare che anche le persone fossero diverse: si poteva chiedere ad un operaio dell’acciaieria, ad esempio, se avesse idea di quale potesse essere l’ultima parola del titolo di un libro scritto da un vecchio color viola che iniziava per “Perchè non sono…”, perché poteva capitare che l’operaio rispondesse. Forse perché la tv in bianco e nero trasmetteva meno scemenze, forse perché la Settimana Enigmistica riusciva a fare benissimo le veci della Treccani, forse perché gli operai dell’acciaieria non sono mai stati tutti uguali, nonostante quello che si pensa di loro, e ce n’erano - ce ne sono - di sorprendenti. Così capitò che mio padre, l’operaio interpellato sulla questione del vecchio viola, replicasse: “Ma l’autore del libro, almeno, lo conosci?”. E certo che lo conoscevo; la barra copriva la terza parola del titolo, mica il nome dell’autore. “Boh, un nome inglese, strano… qualcosa tipo Bertanrussel, mi pare…” – “Ah, allora la parola che cerchi è cristiano. Perché non sono cristiano è un libro famoso di Russell.”
Quinta ginnasio, mai sentito nominare prima. Per fortuna che ci sono gli operai dell’acciaieria che queste cose le sanno. La settimana dopo, niente cinema di seconda visione; corro di domenica mattina all’edicola, e allungo sei pesanti monete da cento all’edicolante, a patto che liberi dalla sbarra di ferro quella povera copertina viola. “Perché non sono cristiano”, già. Era un periodo, quello, in cui un titolo del genere faceva ancora un po’ impressione, stupiva: anche in una città operaia, rossa, non troppo evidentemente cattolica. Ma faceva impressione in maniera diversa da quello che farebbe oggi: a leggere un titolo così, oggigiorno, si reagisce pensando ad altre religioni: non sono cristiano perché sono musulmano, buddista, scientologista, testimone di Geova. A quei tempi, invece, la parola "cristiano" veniva letta come "credente" e pronunciata como "uomo". Leggevi la frase "Tizio non è cristiano" e interpretavi la cosa come una dichiarazione di ateismo o agnosticismo di Tizio: e a dirla tutta, anche l'originale "Why I am not a Christian" del grande vecchio inglese aveva probabilmente soprattutto questo senso. Sentivi pronunciare la frase "guarda quei due cristiani", e capivi che era il termine era il sinonimo più diffuso e naturale di "persone". Cambiano i tempi, cambiano le parole: forse cambierebbero pure i titoli, oggi.
Al fondo del libro (brossura leggera, carta di poco pregio, colla fragile sul dorso), c’era l’elenco di altri tascabili dello stesso autore: Matrimonio e Morale, Ritratti a memoria, Misticismo e Logica, Storia della Filosofia Occidentale, Elogio dell’Ozio. E anche cose imprevedibili come l’ABC della Relatività, i Principi della Matematica, Introduzione alla Filosofia Matematica; e perfino Crimini di Guerra in Vietnam, e decine d'altri titoli. Era un vecchio strano e prolifico, quel vecchio viola in copertina.
Diversi tascabili di quella serie entrarono a far parte della mia libreria: anzi no, detta così, sembra chissà cosa... più che altro, diversi tascabili di quella serie gettarono le fondamenta di quella che in capo a diversi lustri sarebbe diventata la mia libreria. E chissà se hanno davvero avuto influenza, e quale, nel resto della vita. Quanto si capisce davvero, a quindici anni, di un libro come “Misticismo e Logica”? Forse niente; forse più di quello che si capisce a cinquanta. I primi libri sullo scaffale sopra il letto, i primi libri non di scuola, non per ragazzi, non a fumetti, furono quei Pocket e Superpocket Longanesi a firma Bertrand Russell. Senza sapere chi fosse davvero, 'sto Bertrand Russell. Un contemporaneo morto da poco, quasi centenario. Un matematico, filosofo, logico, ribelle, rivoluzionario, pacifista, testardo, inglese, premio Nobel per la Letteratura.
Tutto per colpa d’una sbarra di ferro che copriva l’ultima parola di un titolo, probabilmente. Molte passioni nascono per colpa di oscure sciocchezze. E per colpa di un’edicola di periferia che non si sa per quale folle ragione esponesse libri di filosofia; e di un operaio che sapeva ricordare i titoli dei libri di un filosofo positivista logico inglese.
E per colpa di Bertrand Russell, naturalmente, che come tutti i grandi matematici, non dava per niente a vedere di essere un matematico.
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