La Rivelazione ha un ruolo fondamentale nel cristianesimo perché la fede altro non è che la piena sottomissione dell’intelligenza e della volontà dell’uomo alla Parola rivelata di Dio e la Chiesa a sua volta si presenta come la fedele custode e annunciatrice di tale Rivelazione al mondo. Dunque, se non c’è Rivelazione divina non c’è religione cristiana. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica la Rivelazione è giunta fino a noi tramite la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione. A proposito della prima il Catechismo fa un’affermazione netta, chiara, inequivocabile: “Dio è l’Autore della Sacra Scrittura”. Tutti capiamo il significato di questa espressione perché sappiamo cosa vuol dire che Dante Alighieri è l’autore della Divina Commedia, Victor Hugo l’autore de I Miserabili, William Shakespeare l’autore dell’Amleto. In questo caso però c’è una difficoltà: non possediamo nessun testo scritto direttamente dalla mano di Dio. La Chiesa perciò precisa che la Sacra Scrittura è “la Paroladi Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito divino”.E pertanto afferma: “La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 21]. Il credente non esita ad accettare questa tesi perché sa che Dio è onnipotente ed a lui nulla è impossibile. Noi tuttavia siamo curiosi di sapere come concretamente agisce il meccanismo dell’ispirazione. Il Catechismo ce lo spiega: “Per la composizione dei Libri Sacri, Dio scelse degli uomini, di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli stesso in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori [corsivo mio] tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 21]. Su “veri autori”, che ho evidenziato col corsivo, dovremo tornare più avanti. Intanto possiamo dire che se ciò è vero la Sacra Scrittura è per certo assolutamente vera in quanto garantita da Dio, “il quale è la Verità stessa” e, dunque, non può né ingannarsi né ingannare. E’ quanto puntualmente asserisce il Catechismo: “I libri ispirati insegnano la verità. “Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 21]. E’ questa la dottrina dell’inerranza biblica secondo la quale la Bibbia in tutto ciò che afferma è, in quanto Parola di Dio, assolutamente verace e priva di errori. Il guaio è, per i credenti, che ciò alla prova dei fatti non è vero. La Bibbia è sotto gli occhi di tutti – beninteso di tutti quelli che si vogliono prendere la briga di aprirla e leggerla senza paraocchi. E allora è facile constatare che in essa di errori, contraddizioni, assurdità, sciocchezze ce ne sono a bizzeffe! Ragioniamo. I cristiani affermano, abbiamo visto, che l’autore della Bibbia è Dio. La stessa Scrittura del resto lo testimonia: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio” (2 Tim 3,16). Perciò essa dovrebbe essere un libro del tutto speciale, straordinario, bellissimo, assolutamente incomparabile con ogni altro libro frutto dell’ingegno umano: un libro divino appunto. L’opera è lo specchio dell’autore. E Dio è per definizione il Perfettissimo. Dunque, perfetto l’autore perfetta l’opera. E invece così non è. Scrive Piergiorgio Odifreddi: “Se la Bibbia fosse un’opera ispirata da un Dio, dovrebbe essere corretta, coerente, veritiera, intelligente, giusta e bella. E come mai trabocca invece di assurdità scientifiche, contraddizioni logiche, falsità storiche, sciocchezze umane, perversioni etiche e bruttezze letterarie?” (Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Milano 2007). A sua volta Isaac Asimov incalza: “Letta correttamente, la Bibbia è per l’ateismo la forza più potente mai concepita”. E’ proprio questo il problema che vogliamo approfondire: può Dio essere l’autore della Bibbia? Sta di fatto che, quando, a partire almeno da Spinoza (1632-1677), si incominciò ad applicare il metodo storico-critico all'esegesi biblica, i risultati furono sconvolgenti e la concezione tradizionale e mitica del Libro Sacro ispirato da Dio entrò decisamente in crisi. Santa Romana Chiesa si è auto investita del monopolio della retta interpretazione della Bibbia. Recita il Catechismo: “« L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo», [Conc. Ecum. Vat II, Dei Verbum, 10] e cioè ai Vescovi in comunione con il Successore di Pietro, il Vescovo di Roma”. Pertanto alla fine dell’Ottocento il Magistero ecclesiastico scende in campo a difesa della genuinità della Rivelazione cristiana. Nel 1893 papa Leone XIII con l’enciclica Providentissimus Deus attacca “coloro che con empia audacia inveiscono apertamente contro la Sacra Scrittura o tramano a suo danno ingannevoli o imprudenti innovazioni” e si oppone a quanti “negano del tutto sia la divina rivelazione, come l'ispirazione e la sacra Scrittura, e vanno dicendo che altro non sono se non artifici e invenzioni degli uomini, che non contengono vere narrazioni di cose realmente accadute, ma inutili favole o storie menzognere; così non abbiamo in esse vaticini od oracoli, ma soltanto predizioni fatte dopo gli eventi o presagi di intuito naturale; non presentano veri e propri miracoli e manifestazioni della potenza divina, ma si tratta o di fatti meravigliosi, mai però superiori alle forze della natura, o di magie e miti. I vangeli poi e gli scritti apostolici sono certamente, dicono. da attribuirsi ad altri autori”. Egli di contro ribadisce ciò che “ha sempre ritenuto e professato la Chiesa” riguardo ai libri dell’Antico e Nuovo Testamento, che cioè, “essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore” e sono “oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste [corsivo mio] trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano”. Papa Leone rivendica con fermezza l’inerranza per tutti i libri che compongono la Sacra Bibbia e polemizza con coloro che l’attribuiscono solo a quelle parti che trattano di fede e di morale. Afferma: “Non è assolutamente permesso o restringere l'ispirazione soltanto ad alcune parti della sacra Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia errato. Infatti non è ammissibile il metodo di coloro che risolvono queste difficoltà non esitando a concedere che l'ispirazione divina si estenda alle cose riguardanti la fede e i costumi, e nulla più, stimando erratamente che, trattandosi del vero senso dei passi scritturali, non tanto sia da ricercarsi quali cose abbia detto Dio, quanto piuttosto il soppesare il motivo per cui le abbia dette. Infatti tutti i libri e nella loro integrità, che la chiesa riceve come sacri e canonici, con tutte le loro parti, furono scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, ed è perciò tanto impossibile che la divina ispirazione possa contenere alcun errore, che essa, per sua natura, non solo esclude anche il minimo errore, ma lo esclude e rigetta così necessariamente, come necessariamente Dio, somma verità, non può essere nel modo più assoluto autore di alcun errore” (corsivo mio). Tutti interamente ispirati tutti interamente inerranti. Il passo dell’enciclica è inequivocabile e l’argomentazione che lo sostiene è logicamente impeccabile. Leone XIII afferma: se Dio è l’autore della Sacra Scrittura, allora tutti i libri canonici della Bibbia con tutte le loro parti sono assolutamente esenti da errore, anche minimo, perché Dio è la verità e non può sbagliare. La logica – insegna l’autore della Providentissimus Deus – esige che si stabilisca un ferreo legame tra inerranza ed ispirazione divina: se c’è l’una c’è anche l’altra, necessariamente, ma se manca l’una pure l’altra è assente. Simul stabunt simul cadent. Il romano pontefice richiama espressamente gli infallibili decreti conciliari: “Tale è l'antica e costante fede della chiesa, definita anche con solenne sentenza dai concili Fiorentino e Tridentino, e confermata infine e dichiarata più espressamente nel concilio Vaticano [è il Vaticano I, ndr] che in modo assoluto così decretò: "Bisogna ritenere come sacri e canonici i libri interi dell'Antico e del Nuovo Testamento con tutte le loro parti [corsivo mio], come vengono recensiti dal decreto dello stesso concilio [Tridentino] e quali si hanno nell'antica edizione volgata latina”. Papa Leone aggiunge una precisazione importante: “non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente all'autore principale, ma agli scrittori ispirati. Infatti egli stesso così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva [corsivo mio], le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l'autore di tutta la sacra Scrittura [corsivo mio]. Questo sempre ritennero i santi padri: "Dunque - dice sant'Agostino -, dal momento che essi scrissero ciò che egli mostrava e diceva, in nessun modo può dirsi che non sia stato lui a scrivere, quando le sue membra operano ciò che conobbero sotto la parola del capo". E san Gregorio Magno dice: "E' davvero vano il voler cercare chi abbia scritto tali cose, quando fedelmente si creda che autore del libro è lo Spirito Santo [corsivo mio]. Scrisse dunque tali cose chi le dettò [corsivo mio] perché si scrivessero; scrisse colui che anche nell'opera di quello, fu l'ispiratore". Ne viene di conseguenza che coloro che ammettessero che nei luoghi autentici dei sacri Libri possa trovarsi alcun errore, costoro certamente o pervertono la nozione cattolica della divina ispirazione o fanno Dio stesso autore dell'errore [corsivo mio]”. L’insegnamento di papa Leone XIII è chiarissimo e non ammette ombra di dubbio. Sul tema di cui ci stiamo occupando sono tornati in seguito anche altri papi ed essi hanno ribadito le sue tesi. Nel 1920, in occasione del XV anniversario della morte di san Girolamo, papa Benedetto XV ha pubblicato l’enciclica Spiritus Paraclitus. Egli si rifà a san Girolamo il quale afferma sì che “i Libri della Sacra Scrittura sono stati composti sotto l’ispirazione o il consiglio o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo” e che “senza dubbio, questo stesso Spirito li ha composti e divulgati”, ma anche che “ogni autore di questi Libri abbia, secondo la propria natura e la propria intelligenza, dato libero contributo all’ispirazione divina”. E proprio “per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, Girolamo presenta 1’esempio dell’operaio che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti, tutto quello che gli scrittori sacri dicono «altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca Dio volle servirsi come d’uno strumento ». Dunque papa Benedetto fa esplicitamente sua la teoria di Girolamo dell’agiografo che, pur avendo fisionomia, stile, facoltà, capacità sue personali, è comunque strumento nelle mani dell’Onnipotente. “L’opinione di Girolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica in quanto, egli sostiene, con il dono della sua grazia Dio illumina la mente dello scrittore circa le verità che questi deve trasmettere agli uomini «per ordine divino»; suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro”. Dio insomma sovrintende attentamente a tutta l’opera e perciò anche Girolamo conclude che “l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno [corsivo mio]”. Per cui “molte affermazioni della Scrittura che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere; in questa « parola di verità » non è possibile scoprire nessuna contraddizione, « nessuna discordanza, nessuna incompatibilità »; conseguentemente, « se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi resterebbero veri, quantunque diversi ». Lasciatemi aggiungere qui un grosso punto esclamativo! Ciò che dice il Romano Pontefice è paradossale. Se ho bene inteso, Benedetto XV, sulla scorta dell’insegnamento di san Girolamo, afferma che la Sacra Scrittura è inerrante a tal punto che gli errori non possono esserci e seppure ci sono… non ci sono! Come dire: se la realtà smentisce la dottrina, tanto peggio per la realtà. Il contrasto tra l’affermazione aprioristica e dogmatica dell’assenza di errori e la constatazione che questi errori di fatto esistono qui affiora prepotente e irrisolto. Nel seguito papa Benedetto XV conferma le tesi contenute nella Providentissimus Deus di Leone XIII, che cita ampiamente nei suoi passi più significativi, e ribadisce la sua condanna di quanti vorrebbero limitare l’inerranza biblica alle sole questioni concernenti la religione. Il Magistero ecclesiastico interviene nuovamente sull'argomento in occasione, nel 1943, del cinquantenario della Providentissimus Deus e lo fa con l’enciclica Divino afflante Spiritu di papa Pio XII. Questi riafferma con vigore, in linea con la posizione dei suoi predecessori e della tradizione ecclesiastica, la totale inerranza biblica estesa a tutti i campi e riassume in questo modo i termini della questione: “Perciò il sacro Concilio di Trento con solenne decreto stabilì doversi riconoscere "per sacri e canonici i Libri interi con tutte le loro parti, quali si usò leggerli nella Chiesa cattolica e stanno nell'antica edizione latina volgata" (Sessione IV, decr. I; Ench. Bibl. n. 45). Nell'età nostra il Concilio Vaticano [è il Vaticano I, ndr], a riprovazione delle false dottrine intorno all'ispirazione, dichiarò che la ragione del doversi quei medesimi Libri tener dalla Chiesa per sacri e canonici "non è che, dopo essere stati composti per sola industria umana, la Chiesa li abbia poi con la sua autorità approvati, né soltanto il fatto che contengono la rivelazione senza alcun errore, ma bensì che, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali alla stessa Chiesa furono affidati" (Sessione III, Cap. 2; Ench. Bibl. n. 62). Tuttavia anche dopo, in contrasto con questa solenne definizione della dottrina cattolica [corsivo mio], la quale ai Libri "interi con tutte le loro parti" rivendica tale autorità divina, che va esente da qualunque errore, alcuni autori cattolici non si peritarono di restringere la verità della Sacra Scrittura alle sole cose riguardanti la fede e i costumi, e di considerare le rimanenti, sia di scienze naturali sia di storia, come "dette alla sfuggita" e senza alcuna connessione, secondo loro, con le verità di Fede. Perciò il Nostro Predecessore di immortale memoria Leone XIII, con l'Enciclica "Providentissimus Deus" del 18 novembre 1893, come inflisse a quegli errori la ben meritata condanna, così lo studio dei Libri Divini regolò con prescrizioni e norme sapientissime”. Pertanto Pio XII assegna a sé il compito di “confermare e inculcare quanto già quel Nostro Predecessore ha con tanta saggezza stabilito ed i Successori di Lui hanno contribuito a rassodare”. I capisaldi dell’esegesi cattolica vengono ancora una volta autorevolmente e perentoriamente ribaditi. Intanto però gli studi esegetici condotti con metodo scientifico sono andati avanti ed hanno sempre più messo in evidenza il ruolo non meramente passivo dell’agiografo, dello strumento umano di cui Dio si sarebbe servito per farci conoscere “tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva”. Questi non è il semplice scrivano che mette diligentemente per iscritto il dettato divino, come opinò nel Seicento il teologo domenicano Domenico Benez (1528-1604) e con lui molti autorevoli credenti e come ritengono ancor oggi molte sette protestanti che parlano di “ispirazione verbale assoluta”. A dire il vero questa concezione, come ha del resto rilevato papa Leone XIII, ha salde radici nella tradizione cristiana antica. Sant’Ireneo (II sec.) asserì: “Le Sacre Scritture sono perfette perché dettate [corsivo mio] dal Verbo di Dio e dallo Spirito Santo”. Sant’Agostino (354-430) scrisse: “Da quella città, rispetto alla quale siamo pellegrini ci sono pervenute delle lettere [corsivo mio], sono le stesse Scritture”. E papa san Gregorio Magno (540-604) affermò: “La Bibbia è una lettera scritta da Dio agli uomini” [corsivo mio]. Che dire poi di tutti quei passi del Pentateuco introdotti dalla formula: “Il Signore disse a Mosè”? Ora invece anche il Magistero ecclesiastico non può fare a meno riconoscere che lo scrittore sacro è un collaboratore attivo dell’autore divino, una sorta di coautore, il cui contributo alla stesura del Testo Sacro non è affatto trascurabile e quindi va diligentemente indagato. Perciò Pio XII, sviluppando un accenno già presente nella Spiritus Paraclitus, scrive: “ [I teologi cattolici] partendo nelle loro disquisizioni dal principio che l'agiografo nello scrivere il libro sacro è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osservano che egli sotto l'azione divina talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua opera composto tutti possono facilmente raccogliere "l'indole propria di lui e come le sue personali fattezze e il suo carattere" (Cfr. Benedetto XV, Enc. "Spiritus Paraclitus"). Quindi l'interprete con ogni diligenza non trascurando i nuovi lumi apportati dalle moderne indagini, procuri discernere quale sia stata l'indole del sacro autore, quali le condizioni della sua vita, in qual tempo sia vissuto, quali fonti scritte ed orali abbia adoperate, di quali forme del dire si avvalga. Cosi potrà più esattamente conoscere chi sia stato l'agiografo e che cosa abbia voluto dire nel suo scritto”. A quest’ultima affermazione noi potremmo obiettare che di ciò che abbia voluto dire l’agiografo a noi importa niente, perché vogliamo sapere solo che cosa ha voluto comunicarci per la nostra salvezza Dio, che è l’autore – o no? – della Scrittura. Non ha forse detto papa Gregorio Magno: “E’ davvero vano il voler cercare chi abbia scritto tali cose, quando fedelmente si creda che autore del libro è lo Spirito Santo”? In realtà, una volta che si apre il campo allo studio della personalità dell’autore (umano), della sua ideologia, dei suoi interessi e scopi, del contesto storico-sociale, delle fonti, delle influenze, dei generi letterari, una volta cioè che vengono applicati i principi del metodo storico-critico alla Bibbia e questa viene letta come un qualsiasi altro libro, per il concetto di rivelazione divina non c’è più scampo e il Testo presuntamente divino si rivela per quello che è: umano, troppo umano. Tanto è vero che nel seguito della sua enciclica Pio XII è costretto ad annacquare le perentorie e arroganti affermazioni precedenti, ma per farlo deve ricorrere a scoperti sofismi, come quando, per esempio, con sospetto candore scrive: “Dio nei Sacri Libri da Lui ispirati ha voluto venissero sparse difficoltà, perché noi ci sentissimo spronati a leggerli e scrutarli con maggior applicazione e inoltre, sperimentando la nostra limitazione, vi trovassimo un salutare esercizio di doverosa umiltà”. L’Onnipotente dunque si è rivelato, ma non troppo; anzi si è divertito a metterci in difficoltà, a cospargere la strada del retto intendimento del suo volere di oscurità e trabocchetti – tra i quali neanche il Magistero ecclesiastico spesso si raccapezza – come si fa in un gioco enigmistico, allo scopo di saggiare la nostra perspicacia e intelligenza e darci una lezione di umiltà. Carino ma poco serio. Sta di fatto che l’amena trovata dell’Altissimo ha avuto effetti deleteri, provocando la divisione del gregge cristiano in tante Chiese in inconciliabile e a volte cruento contrasto fra loro. Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1993 e che si rifà fedelmente alla Dei Verbum del concilio Vaticano II, sotto l’irresistibile urgenza delle acquisizioni ermeneutiche del metodo storico-critico, recepisce le indicazioni di Pio XII e va addirittura oltre parlando, come abbiamo evidenziato all'inizio, degli agiografi come “veri autori” (Cat 106) – espressione che non si trova nelle encicliche papali precedentemente esaminate – e minando in questo modo tutto l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Chi è infatti il vero autore della Bibbia Dio o lo scrittore sacro? Quanti veri autori ci sono? L’ambiguità è palese. La porta ormai è spalancata e “bisogna dunque cercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole [Conc. Ecum. Vat II, Dei Verbum, 12, 1]” (Cat 109). E allora “per comprendere l’intenzione degli autori sacri, si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, dei ‘generi letterari’ allora in uso, dei modi di intendere, di esprimersi, di raccontare, consueti della loro epoca” [Conc. Ecum. Vat II, Dei Verbum, 12, 2]”. A furia però di approfondire queste ricerche ne sono venute fuori delle belle e il concetto di inerranza biblica è stato travolto. Il fatto è che, come bene osserva Gerardo Picardo, “un tempo, prima della esplosione della critica Biblica, la composizione umana dei libri sacri era concepita in modo molto semplice: ogni libro era visto come prodotto che un suo autore aveva composto sotto l'influenza dell'azione divina. Attualmente, è dato per certo che almeno una buona parte di libri sacri è il prodotto di un lungo periodo di formazione, di gestazione, implicante a volte anche secoli di precedenti tradizioni orali e scritte (è il caso ad es. del Pentateuco). Con una tale moltitudine di compositori e redattori diventa difficile stabilire l'effetto preciso dell'azione ispiratrice di Dio su tutte le persone che hanno contribuito alla formazione di un determinato libro. L'unica possibile soluzione è supporre che, anche quando si trattava di più compositori, su ciascuno di essi ci sia stato un influsso analogo, simile a quello esercitato su una singola intelligenza”. Ma si tratta di una soluzione che si dimostra inadeguata perché la rilettura in chiave scientifica e non più mitica del presunto Testo Sacro lascia emergere tutti i limiti, tutti i difetti, tutti gli errori e le incongruenze che un libro inerrante, anzi direi di più, perfetto, perché il suo autore è il Perfettissimo, non può avere. Basta prendere in mano La Bibbiadi Gerusalemme (1984, d’ora in poi Bdg), il cui testo e il cui apparato critico (“una delle più alte espressioni dell’esegesi contemporanea” si legge nella presentazione del card. Gianfranco Ravasi) sono stati approvati dalla CEI (Conferenza episcopale italiana), per scoprire proprio all’inizio che il Pentateuco, tradizionalmente attribuito a Mosè almeno dal principio della nostra èra (“e il Cristo e gli apostoli si conformarono a questa opinione” errata, aggiungo io), non è stato scritto da lui: “infatti, lo studio moderno di questi libri ha fatto spiccare differenze di stile, ripetizioni e disordini nei racconti che impediscono di vedervi un’opera uscita tutta intera dalla mano di un solo autore” (p. 23). E se questo vale per l’autore umano, a maggior ragione vale per il presunto autore divino! Semplificando, gli esegeti ci dicono che il Pentateuco nasce dall’assemblaggio raffazzonato di almeno quattro diverse correnti di tradizione: la jahvista, l’elohista, la sacerdotale e la deuteronomica. “La pluralità di queste correnti di tradizione è un fatto reso evidente dai doppioni, dalle ripetizioni, dalle discordanze che colpiscono il lettore fin dalle prime pagine della Genesi: due racconti della creazione (1-2, 4a e 2, 4b-3, 24); due genealogie di Caino-Kenan (4, 17s e 5, 12-17); due racconti combinati del diluvio (6-8). Nella storia patriarcale, ci sono due presentazioni dell’alleanza con Abramo (Gen 15 e 17); due espulsioni di Agar (16 e 21); tre racconti della disavventura della moglie di un patriarca in un paese straniero (12, 10-20; 20; 26, 1-11); due storie combinate di Giuseppe e dei suoi fratelli negli ultimi capitoli della Genesi. Ci sono poi due racconti della vocazione di Mosè (Es 3, 1-4, 17 e 6, 2-7, 7); due miracoli dell’acqua a Meriba (Es 17, 1-7 e Nm 20, 1-13); due testi del decalogo (Es 23, 14-19; 34, 18-23; Lv 23; Dt 16, 1-16). Si potrebbero citare molti altri esempi” (p. 24). Questo afferma la BdG e questo invece l’enciclica Spiritus Paraclitus: nella Bibbia “non è possibile scoprire nessuna contraddizione, nessuna discordanza, nessuna incompatibilità”. Le parole di Benedetto XV non potevano ricevere smentita più clamorosa, e per giunta da esegeti cattolici. Ma l’A T è zeppo di sciocchezze, errori, contraddizioni, assurdità e difetti vari. L’ho già messo abbondantemente in evidenza altrove e lo hanno messo in evidenza numerosi altri autori. Pietro Micaroni ha dedicato all’argomento un’opera in più volumi, La Bibbia spiegata da un ateo (ed. Lulu), di facile e piacevole lettura. Chi ha meno tempo può dilettarsi con l’agile e documentato libello di Mario Trevisan, Stupidario biblico (ed. Lulu). Un accenno però meritano le profezie, che sono considerate tra le più importanti prove storiche della veracità del cristianesimo. Ce n’è una nell’A T che lascia stupefatti. Il profeta Isaia, attivo tra il 740 e il 700 a.C., predice che Ciro il Grande avrebbe conquistato Babilonia, evento che effettivamente si realizzò due secoli dopo, nel 539 a.C. (Isaia 45, 1-7). Isaia non solo prevede la caduta di Babilonia ad opera dei Medi, ma addirittura fa il nome del suo conquistatore, Ciro, e dice che questi agirà come strumento del Signore mettendo fine all’esilio del popolo eletto. Cose che puntualmente si avvereranno. C’è da rimanere sbalorditi, senza fiato! Fino a quando però non si legge la nota che accompagna il testo: “Questo oracolo è curiosamente parallelo a un testo babilonese, il Cilindro di Ciro, in cui si dice che Marduch, che non è un dio persiano, ha ‘nominato il nome di Ciro e lo ha chiamato al dominio su tutta la terra’. Questo testo, redatto dai sacerdoti di Babilonia, è stato scritto, come l’oracolo del Deutero-Isaia, al momento della marcia vittoriosa di Ciro, nel 538 [corsivo mio]” (p. 1640). Dunque, quella che abbiamo letto, e ci ha lasciato sbigottiti, è evidentemente una falsa profezia, redatta post factum, dopo cioè che l’evento “predetto” si è realizzato, e da un autore diverso vissuto molto tempo dopo (il Deutero-Isaia) da quello a cui è attribuita. E ciò viene candidamente ammesso dal commentatore cattolico. Gli studiosi ci dicono, e dimostrano, che la prassi di falsare le profezie fu sistematicamente praticata dagli autori biblici. Anche chi esperto non è può rendersi conto di questo fatto e della tecnica adoperata per costruire questi vaticinia ex eventu semplicemente leggendo le introduzioni ai vari libri profetici della più volte da noi citata, cattolica, BdG. Altro discorso meritano le pseudo-profezie riportate dagli evangelisti a proposito di Gesù. Il tema è stato trattato da Mario Trevisan nel libro Povero Cristo (ed. Lulu), ma lo si può trovare anche nel testo Stupidario biblico precedentemente citato. Tutte false! E chiunque voglia può controllare. Nel testo biblico vi sono anche profezie autentiche che però non si sono realizzate. Nella Genesi, per esempio, Jahve stipula con Abramo un patto solenne e impegnativo: “In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram: ‘Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate…’” (Gen 15, 18). Basta osservare una cartina geografica per constatare che il territorio promesso si estende dall’Egitto fino alla Mesopotamia e comprende tutta la penisola arabica. Ebbene gli ebrei, i discendenti di Abramo, non hanno mai posseduto questo territorio. Mai. La profezia e la promessa di Jahve si sono dimostrate palesemente fallaci. L’infortunio più clamoroso in questo campo capita però a Gesù. Come molti sanno, il termine “vangelo” deriva dal greco (eu-anghélion) e significa “buona novella”, “lieto annuncio” e la buona notizia è quella del prossimo avvento del regno di Dio (Marco e Luca) o del regno dei cieli (Matteo). Questo annuncio era al centro della predicazione di Gesù. Egli infatti inaugura la sua missione con le parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Marco 1, 15). E l’incarico che affida agli apostoli è proprio questo: “Predicate che il regno dei cieli è vicino” (Matteo 10, 7). Gesù fa in proposito una predizione precisa e facilmente verificabile: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Marco 9, 1). Identica affermazione troviamo in Luca: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio” (9, 27). Si possono citare altri passi in cui ritorna la stessa profezia. “Non passerà questa generazione…” (Luca 21, 32) e invece quella generazione è passata e molte altre ne sono passate, i suoi ascoltatori sono tutti morti da un pezzo e addirittura sono trascorsi quasi duemila anni da allora ma nulla è accaduto. Il regno di Dio è ancora di là da venire. Che si vuole di più per poter affermare che Gesù ha fatto una profezia che non si è avverata, cosa che per un Dio, quale i creduli dicono che sia, è inammissibile?
I difetti dell’A T sono talmente numerosi ed evidenti che anche il Catechismo ammette, sulla scorta di quanto dichiarato dal concilio Vaticano II, che i libri dell’A T contengono “cose imperfette e temporanee”. Ammissione alquanto strana e imbarazzante, visto che l’autore di queste imperfezioni dovrebbe essere il Perfettissimo. Lasciamo perdere, non sottilizziamo. Abbiamo gli scritti del N T “che ci consegnano la verità definitiva della rivelazione divina” e dove “la Parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente” (Cat 124). Questi libri per certo saranno impeccabili, limpidamente veraci, degni del loro autore, Dio che è, ricordiamolo, la Verità. Cito dall'introduzione ai Vangeli sinottici della solita BdG: “Non si deve dire però che ogni fatto o detto da loro [dai Vangeli sinottici, ndr] riferito può essere preso per una riproduzione rigorosamente esatta di ciò che è successo nella realtà [sic]. Le leggi inevitabili di ogni testimonianza umana e della sua trasmissione [che fine ha fatto l’infallibile ispirazione divina? ndr] dissuadono dall'aspettarsi una simile precisione materiale, e i fatti contribuiscono a questa messa in guardia, poiché vediamo che il medesimo episodio e la stessa parola sono trasmessi in modo differente dai diversi Vangeli [e i fatti sono fatti, ndr]. Questo, che vale per il contenuto dei vari episodi,, vale a maggior ragione per l’ordine con cui si trovano organizzati tra loro. (…) Queste constatazioni però non pregiudicano la fede dei cristiani nell'autorità dei libri ispirati [i credenti, si sa, bevono tutto, ndr]. Se lo Spirito santo non ha concesso ai suoi interpreti di raggiungere una perfetta uniformità nel dettaglio, è perché non dava alla precisione materiale una importanza per la fede. Molto più: voleva questa diversità nella testimonianza [lo Spirito santo, spirito di Verità, predilige e vuole l’inesattezza! E’ una nuova verità di fede?]. (…) Un fatto che ci viene attestato da tradizioni diverse e persino contrastanti (si pensi alle apparizioni dopo la resurrezione) riveste, nella sostanza profonda, una ricchezza e una solidità che una testimonianza pienamente coerente ma con un solo suono non gli saprebbe dare. Perfino quando la diversità delle testimonianze non proviene solo dagli inevitabili incidenti della trasmissione, ma risulta da correzioni intenzionali [di chi? Dello Spirito santo ispiratore o dell’infedele scrivano umano? ndr], essa è ancora un vantaggio [?]. E’ indubbio che in molti casi i redattori evangelici hanno voluto coscientemente [corsivo mio] presentare le cose in modo diverso [hanno cioè coscientemente alterato la verità, ndr]; e, prima di loro, la tradizione orale di cui sono gli eredi, non ha trasmesso i ricordi evangelici senza interpretarli e adattarli in diversi modi ai bisogni della fede viva di cui erano portatori” (pp. 2079-2080). Anche il N T pullula di falsità, contraddizioni, errori. Le ammissioni contenute in questo brano redatto da esegeti cattolici lo attestano, sia pure in forma cautelosa, inequivocabilmente. Possiamo indicarne alcuni dei più vistosi e facilmente controllabili. Le due genealogie di Gesù (Matteo 1, 1-16; Luca 3, 23-38), nient’affatto coincidenti; i due racconti della nascita di Gesù (Matteo 2, 1-23; Luca 2, 1-39), assolutamente incompatibili; le narrazioni dell’ultima cena dei sinottici e di Giovanni, molto diverse; le ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce, tre versioni discordanti; i racconti della “tomba vuota” e delle apparizioni dopo la – presunta – risurrezione, tutti differenti; i due racconti della morte di Giuda (Matteo 27, 3-10; Atti 1, 18-19), inconciliabili. Ci sono poi delle aggiunte spurie conclamate. Mi limito a segnalarne due ben note, almeno agli specialisti. “La ‘finale di Marco’ (vv 9-20) – si legge nella nota della BdG – fa parte delle Scritture ispirate; è ritenuta canonica. Questo non significa necessariamente che sia stata redatta da Marco. In effetti, la sua appartenenza alla redazione del secondo Vangelo è messa in discussione” (p. 2190). Detto senza infingimenti: è canonica e quindi ispirata, ma è opera di un falsario. E Dio lo avrebbe ispirato. Il commentatore cerca di barcamenarsi alla meglio e poi con consumata ipocrisia conclude: “Se non si può provare che ha avuto Marco per autore, resta sempre, secondo l’espressione di Swete, ‘una autentica reliquia della prima generazione cristiana’.” (p. 2191). Ebbene in questa “autentica reliquia” troviamo questa autentica perla: “E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome [di Gesù, ndr] scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Marco 16, 16-18). Tutti conoscono il passo del Vangelo di Giovanni della donna sorpresa in flagrante adulterio che in ossequio alla legge mosaica era sul punto di essere lapidata (8, 3-11) e la frase famosa – gioia di tutte le bricconcelle: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Di esso si legge nella nota: “Questo brano omesso dai più antichi testimoni (mss, versioni, Padri), spostato da altri, dallo stile di colore sinottico, non può essere [corsivo mio] dello stesso Giovanni” (p. 2285). Un altro falso riconosciuto. C’è poi la questione della pseudepigrafia per la quale gli autori di alcuni scritti non sono quelli che dichiarano di essere, ma altri che si spacciano per loro al fine di millantare un’autorità apostolica che non posseggono. Gli studiosi nutrono seri dubbi sull'autenticità di alcune lettere attribuite a Paolo, particolarmente forti per le lettere pastorali, mentre c’e un accordo pressoché unanime nel negare la sua paternità alla lettera agli Ebrei, sebbene questa sia stata tradizionalmente incorporata nella raccolta paolina. Così la maggior parte degli esperti ritiene false le due lettere di Pietro che compaiono nel canone. La BdG, pur facendo significative ammissioni, in genere si mantiene sulla difensiva, evita di fare ammissioni compromettenti, ma non può che abbassare le armi riguardo alla seconda epistola petrina. Nell'introduzione alle Lettere cattoliche si legge infatti:“Queste difficoltà autorizzano dubbi che si sono manifestati fin dall'antichità. Non solo l’uso della lettera non è attestato con certezza prima del III sec., ma, in più, alcuni la rigettavano, come ci testimoniano Origene, Eusebio e Girolamo. Anche molti critici moderni si rifiutano di attribuirla a san Pietro ed è difficile dar loro torto [corsivo mio]” (p. 2589). Dunque, in questo caso, anche da parte cattolica, si ammette esplicitamente che la Seconda lettera di Pietro contenuta nella Bibbia non è di Pietro. “Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ricevuto con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza…” (2Pt 1, 1-2). Chi scrive queste parole non è il principe degli apostoli ma un impostore che si spaccia per lui onde conferire a se stesso il suo prestigio e la sua autorità. Egli ha la sfrontatezza di accreditarsi come testimone oculare della trasfigurazione di Cristo al fine di confermare nella fede i credenti! Leggiamo: “Infatti non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: ‘Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1, 16-18). Presente nel canone neotestamentario, questa lettera è per la dottrina cattolica divinamente ispirata, dunque Parola di Dio e come tale assolutamente vera. Ma in realtà è sicuramente falsa. Il metodo storico-critico con lo studio delle diverse tradizioni e delle fonti ha messo in luce quale è stato il reale processo di formazione e composizione dei testi biblici svelandone la natura prettamente umana. E ciò vale tanto per l’A T quanto per il N T. Alla fine anche gli esegeti cattolici, pur tra resistenze e titubanze, ne hanno dovuto prendere atto. Sicché, come abbiamo visto a proposito dei Vangeli sinottici, il commento della BdG ci attesta la presenza di incidenti nella trasmissione delle testimonianze, correzioni intenzionali, interpretazioni e adattamenti dei ricordi evangelici alle esigenze di fede delle singole comunità. Ciò significa, se vogliamo mantenere lo schema autore divino/autori umani, un intervento massiccio degli autori umani nella composizione dei testi presuntamente ispirati, intervento che ne spiega incoerenze, contraddizioni, inesattezze, travisamenti anche intenzionali della realtà dei fatti. Ma questo è proprio ciò che papa Leone XIII nella Providentissimus Deus categoricamente escludeva! Rileggiamo le sue parole: “Non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente all'autore principale, ma agli scrittori ispirati. Infatti egli stesso così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l'autore di tutta la sacra Scrittura”. Più chiaro di così! Qui sta a mio avviso il punto decisivo. Come si fa ad affermare che Dio è l’autore dei testi biblici quando la loro genesi è quella così complessa e travagliata che ci mostrano gli esegeti, adesso anche quelli di matrice cattolica? Nell'enciclica Providentissimus Deus si legge anche: “Infatti tutti i libri e nella loro integrità, che la chiesa riceve come sacri e canonici, con tutte le loro parti, furono scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, ed è perciò tanto impossibile che la divina ispirazione possa contenere alcun errore, che essa, per sua natura, non solo esclude anche il minimo errore, ma lo esclude e rigetta così necessariamente, come necessariamente Dio, somma verità, non può essere nel modo più assoluto autore di alcun errore”. Papa Leone rileva un’incompatibilità logica tra l’ispirazione divina assolutamente verace e l’errore, tanto da escludere che nel Testo Sacro possa esserci un errore anche minimo. E allora egli conclude con implacabile rigore logico: “Ne viene di conseguenza che coloro che ammettessero che nei luoghi autentici dei sacri Libri possa trovarsi alcun errore, costoro certamente o pervertono la nozione cattolica della divina ispirazione o fanno Dio stesso autore dell'errore [corsivo mio]”. A questa conclusione mi associo anch'io e dico che la dimostrata presenza di tanti errori nella Scrittura cosiddetta sacra confuta perentoriamente la nozione cattolica di divina ispirazione e con essa la pretesa della Chiesa di possedere un’autentica rivelazione divina. Qualcuno potrebbe dire che ormai sono passati molti anni dalle encicliche e dai documenti – concili, catechismo – da me citati. Bisogna aggiornarsi! Infatti nel 1993, a cento anni esatti dalla pubblicazione della Providentissimus Deus, la Pontificia commissione biblica ha prodotto un documento che ha come titolo L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. L’ho letto. E’ uno scritto prolisso, confuso e noioso in cui si fa sfoggio di inconcludente e superficiale erudizione al solo scopo di confondere le idee e, per usare le parole di papa Leone XIII, pervertire la nozione cattolica di divina ispirazione senza tuttavia rinunciare a dirsi cattolici. La granitica certezza che Dio è l’autore della Sacra Scrittura e che perciò questa è tutta assolutamente inerrante, certezza che, come si è visto, aveva nutrito la fede di Leone XIII, Benedetto XV e Pio XII, pontefici di Santa Romana Chiesa, e che è stata espressa in tanti documenti ufficiali e persino conciliari, è assolutamente assente. Mi piace citare a tale proposito san Tommaso, il doctor angelicus, il cui insegnamento sempre la Chiesa ha tenuto e tiene in grande considerazione: “Tutto ciò che è contenuto nella Sacra Scrittura è vero; d’altra parte chi opinasse contro, sarebbe eretico” (Quaestiones de quolibet XII, q. 17). Tutto ciò viene ignorato e passato sotto silenzio dai novelli sedicenti esegeti cattolici. Basti dire che nel documento del 1993 il termine “inerranza” compare un’unica volta (p. 16) e solo per essere aspramente criticato, quasi che esso appartenga esclusivamente alla cattiva genia dei protestanti fondamentalisti. Una falsità storica evidente. Un modo subdolo e vigliacco – un attacco per interposta persona – di sbarazzarsi di un concetto ormai scomodo e indifendibile, ma che costituisce da sempre, abbiamo visto, uno dei capisaldi dell’esegesi cattolica ortodossa. Che ne è a questo punto del principio dell’infallibilità della Chiesa? Un giorno la Bibbia è inerrante, il giorno dopo non lo è più? Anche la Veritàmuta col mutar del vento? Se è così “non c’è più religione”! Io penso che se si vogliono trarre le estreme, rigorose conseguenze dell’applicazione del metodo storico-critico agli studi biblici bisogna avere il coraggio e l’onestà intellettuale di ammettere che essa ha distrutto il concetto di rivelazione divina e con ciò ha inferto un colpo mortale alla religione cristiana in quanto religione rivelata.
Il metodo storico-critico infatti rappresenta – come già avvenuto in campi diversi con Galileo e con Darwin – la vittoria della scienza sul mito. In questo caso il mito è stato sconfitto dalla storia e dalla filologia. Non conta ciò che hanno detto papi, concili e la Bibbia stessa (principio di autorità), ma ciò che accerta la scienza con la sua metodologia razionale (principio dell’evidenza logico-empirica). Si tratta di un radicale mutamento di paradigma gnoseologico. E quando ciò avviene non c’è più scampo per il pensiero magico-religioso.
Renato Testa
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Antonio (venerdì, 17 gennaio 2020 19:29)
Bell'articolo.