Che il mondo islamico sia rimasto indietro nella ricerca scientifica è un dato di fatto. L’Organization of islamic conference (OIC) – organizzazione inter-governativa di cui fanno parte 57 paesi – qualche tempo fa ha commissionato uno studio per fare il punto della situazione sulla ricerca scientifica nelle nazioni islamiche tra il 1995 e il 2005. Risultato: in quei dieci anni il numero degli studi provenienti da pesi OIC e pubblicati su riviste peer-review sono stati il 2,5 per cento del totale. Da questo ad affermare che la religione islamica è sostanzialmente incompatibile con la ricerca scientifica – uno degli argomenti messi in campo dai sostenitori dell’inferiorità culturale dei paesi musulmani rispetto a quelli occidentali – forse è fuorviante. È vero che il mondo musulmano ha perso più di un’occasione nel campo scientifico, ma come si dice: non è mai troppo tardi. Vorrei lasciare da parte la storia della scienza nell’Islam, quindi personaggi importanti anche per il mondo occidentale moderno come per esempio Al Khwarizmi o Averroè – quest’ultimo travolto da una vera e propria ondata di fanatismo religioso proprio della sua stessa religione – e raccontare quanto stanno facendo in Malaysia. Conosciuta anche come Malesia, o meglio ancora come la patria di Sandokan (per quelli come me che vedevano nel personaggio interpretato da Kabir Bedi l’eroe assoluto). La Malaysia è uno stato islamico, ovvero l’Islam è la religione ufficiale. È un paese estremamente variegato dal punto di vista etnico e religioso, e la convivenza pacifica negli ultimi tempi è stata possibile anche grazie alla crescita economica esponenziale. Non siamo sui livelli della Cina, ma negli ultimi sei anni la media è di poco più del 5 per cento annuale. Questa crescita è servita a mantenere una certa pace sociale perché ha permesso di ridurre la percentuale di popolazione povera e migliorare la qualità della vita, ma è basata su un sistema comune a molte nazioni in via di sviluppo: produzione di massa, basso costo della manodopera e lavoratori relativamente poco qualificati. Per cercare di rimanere sulla cresta dell’onda e affrontare le sfide del mercato globale, la Malaysia ha deciso di puntare sulla società della conoscenza, sull'innovazione tecnologica d’avanguardia. Per il 2008 il governo ha stanziato 3,5 miliardi di dollari per la ricerca e lo sviluppo, e per portare sul mercato quanto scoperto nei laboratori delle università. La maggior parte dei fondi andrà ai programmi di quattro università e in generale gli scienziati malesi riceveranno l’80 per cento delle royalty per ogni ricerca accademica che sarà commercializzata con successo, mentre attualmente la percentuale varia tra 50 e 70 per cento. E uno dei campi su scommetterà la Malaysia sarà quello delle biotecnologie, basta fare un giro sul sito del Ministero malese per la scienza e la tecnologia www.mosti.gov.my).
Ma non finisce qui. Perché sempre da quelle parti – alla Academy of Sciences Malaysia a Kuala Lampur, per la precisione – sorgerà un centro internazionale per la cooperazione sud-sud (quella tra paesi in via di sviluppo) con la benedizione delle Nazioni Unite. Dunque anche i malesi, come cinesi, indiani e brasiliani, punteranno sulla conoscenza scientifica e tecnologica per lo sviluppo di relazioni politiche internazionali. Il percorso della Malaysia è un paradigma delle parole che Joseph Stiglitz pronunciò nel discorso fatto nel 2001 quando gli fu conferito il premio Nobel per l’economia, che cito e riassumo brutalmente: non esiste una ricetta unica per il modo in cui una nazione crea conoscenza scientifica, tuttavia il governo ha un ruolo fondamentale, un ruolo nell'educazione alla creatività e al rischio che l’impresa scientifica richiede, nel creare istituzioni che trasformino le idee nella loro fruizione.
Giovanni Spataro
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